Avevo detto loro che si doveva fare una cavalcata dentro il paese, organizzare una grande manifestazione.
Dovevamo dimostrare che i lavoratori non temevano i soprusi degli agrari e dei mafiosi.
Dovevamo continuare a lottare anche di fronte a minacce e intimidazioni.
E così ebbe luogo la storica cavalcata per le vie di Sciacca alla quale presero parte più di 10.000 contadini.
Un corteo lunghissimo.
Arrivati da Menfi, Montevago, Santa Margherita, Sambuca, Burgio, Caltabellotta, Lucca, Ribera, Calamonaci, Villafranca.
Davanti a tutti c’ero io.
“I più ricchi quella mattina balconi non ne hanno aperto nessuno. C’erano anche ragazzi a cavallo col loro padre. Accursio Miraglia pareva Orlando a cavallo, era un piacere vedere questa potenza d’uomo a cavallo, era una persona da guardarlo, era un amore a guardarlo…”
“C’erano quattro o cinquemila muli, poi tante biciclette. Chi ce l’avevano nel cuore, salutavano e battevano mani, c’erano lì i mariti e i figli e le mogli che stavano sulla passata, aspettando di vederli. Poi al campo sportivo lui parlò per spiegare il perché della cavalcata…”.
Sì, mi chiamo Accursio Miraglia a quel tempo dirigente comunista e segretario della Camera del Lavoro.
Era il settembre 1946 a Sciacca (Agrigento).
Migliaia di contadini e «la loro volontà di lotta, la loro volontà di rinnovamento, per la rinascita e il riscatto della loro terra»
Se ero consapevole del rischio che stavo correndo? Certo che ero consapevole.
I contadini erano esasperati e sfogavano la loro rabbia.
“Gli agrari, spalleggiati dai campieri e dai gabellotti mafiosi, intrecciarono l’ostruzionismo legale col terrorismo extralegale. Sparando”.
Certo che ero consapevole dei rischi.
E quello che era successo negli ultimi anni era lì a dimostrarlo.
Come l’11 settembre 1945, quando fu assassinato Agostino D’Alessandro, segretario della Camera del Lavoro di Ficarazzi (Palermo).
E poi il 18 novembre.
A Cattolica Eraclea (Agrigento), quando fu ucciso in un agguato Giuseppe Scalia, attivista della sinistra politica e sindacale, mentre stava passeggiando col vicesindaco Bentivegna.
Alcuni sicari della mafia lanciarono al loro indirizzo bombe a mano colpendo a morte lo Scalia.
Il 25 novembre 1945, a Mazzarino (Caltanissetta), fu ucciso dalla mafia Giuseppe Lo Cicero.
Mentre, il 4 dicembre 1945, a cadere sotto il piombo della mafia fu il segretario della sezione del Partito Comunista di Ventimiglia (Palermo), Giuseppe Puntarello.
Anche loro erano consapevoli dei rischi.
Come tutti.
Il 16 maggio 1946, il sindaco socialista di Favara (Agrigento), Gaetano Guarino, un farmacista che si era schierato apertamente con i contadini ed i minatori del suo paese, era stato ucciso da colpi di rivoltella.
Nelle elezioni comunali del marzo 1946 era stata la sinistra a vincere e Gaetano Guarino era diventato sindaco.
I mafiosi lo avevano minacciato.
Doveva essere «tollerante con gli uomini di rispetto», ma il sindaco aveva risposto picche.
Ed era stato ucciso.
Il 28 giugno del ’46, era caduto un altro sindaco, il socialista Pino Camilleri, di Naro (Agrigento).
Il 22 settembre 1946 ad Alia (Palermo) durante una riunione di contadini, qualcuno dalla strada lanciò delle bombe a mano nella casa seguite da colpi di lupara.
Due contadini, G. Castiglione e G. Scaccia, morirono sul colpo.
Un mese dopo, il 22 ottobre 1946, a Santa Ninfa (Trapani), fu assassinato Giuseppe Biondo, un mezzadro che aveva preso parte attivamente alle lotte per la ripartizione dei prodotti agricoli in base ai decreti Gullo.
E potrei continuare.
Il 1947 è appena iniziato e sono certo non sarà diverso dagli anni precedenti.
Ci sarà da lottare e forse morire, ma amo troppo la frase che ha scritto Ernest Hemingway nel romanzo “Per chi suona la campana.
«Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio».
Erano circa le nove e mezza di sera del 4 gennaio 1947 quando Accursio Miraglia uscì dai locali della sezione comunista per tornare a casa.
Conscio dei rischi con lui c’erano sempre quattro compagni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro Interrante.
Fecero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa rientrarono nelle loro abitazioni.
Gli altri due lasciarono il dirigente contadino a circa 30-40 metri da casa sua, lo salutarono e ritornarono indietro.
Passarono solo pochi istanti quando udirono colpi di pistola.
Non ci volle molto a capire chi fosse il bersaglio. Ritornarono indietro e videro due giovani allontanarsi. Accursio Miraglia era morto, riverso sull’uscio di casa, tra le braccia della moglie russa Tatiana Klimenko che continuava a urlare per la disperazione.
Non era certo il primo omicidio di mafia, ma Miraglia era conosciuto e rispettato non solo in Sicilia, ma in tutto il Paese.
Poeta, musicista, pittore, direttore dell’ospedale di Sciacca, industriale del pesce e direttore del teatro” Rossi”.
E sindacalista, paladino dei contadini
E le indagini?
Dalle testimonianze raccolte furono accusati, come i responsabili dell’omicidio di Accursio Miraglia, il cavaliere Rossi, il suo gabellotto Di Stefano e Curreri.
La “colpa” di Accursio era stata quella di essersi battuto a favore dei contadini poveri.
Una volta ricevuti gli atti dell’inchiesta (dopo soli 9 giorni) la Procura di Palermo decise per la mancanza di elementi concreti di colpevolezza a carico degli imputati, ordinandone la scarcerazione.
Inviare così in fretta le carte alla Procura serviva proprio a quello scopo.
Di lasciare il delitto impunito.
Un’interrogazione parlamentare però fece riaprire le indagini.
Ad essere individuato come esecutore del delitto fu nuovamente il Curreri, insieme a Marciante e Bartolo Oliva.
Curreri e Marciante confessarono il delitto, ma poi ritrattarono tutto
Curreri e Marciante accusarono la polizia e i carabinieri di aver estorto le loro confessioni sotto tortura.
La Procura, quindi, prosciolse tutti gli imputati per non aver commesso il fatto, denunciando per torture e sevizie gli inquirenti.
Tutto finito?
Nemmeno per sogno.
L’istruttoria contro i “torturatori”, presso la Procura di Agrigento, si concluse col proscioglimento pieno dei poliziotti e dei carabinieri.
Se innocenti, allora i loro accusatori avevano mentito? Non fatevi troppe domande.
Tutto finì lì.
E su quella vicenda calò il silenzio.
Grazie a @BeppTwo81593 per avermi suggerito di raccontare la storia di Accursio Miraglia, il sindacalista paladino dei contadini.
I funerali si svolsero l’11 gennaio, con tutta la popolazione.
Ma non in chiesa, vietata per chi moriva ammazzato, soprattutto se comunista.
«Io non impreco e non chiedo alcuna punizione. Io che ho tanto amato la vita, chiedo ad essa di vedere pentiti coloro che ci hanno fatto del male».
(Accursio Miraglia in una lettera del 1939)
«Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio».
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Siamo sempre stati abituati ai cataclismi.
Normale se vivi su un’isola dove i terremoti sono all’ordine del giorno da secoli.
Se al centro si eleva il monte Aso, il più vasto vulcano attivo del mondo.
Per non parlare del vulcano Kirishima e a sud quello di Sakurajima.
Eravamo abituati ai cataclismi, noi dell’isola di Kyushu, la Sicilia nipponica.
Sapevamo cosa fosse la paura, vivevamo da sempre con la paura.
Perché proprio a noi?
Perché quella nostra suggestiva città adagiata sulla costa ovest di Kyushu ricca di templi buddisti?
La città dove Pierre Loti aveva vissuto la sua avventura con Madama Crisantemo e in seguito pure quella del tenente Pinkerton con Butterfly.
Una città stupenda.
Sviluppata intorno alla baia dove confluiscono come una sorta di Y azzurra, quei due fiumi, l’Urakami e il Doza.
Giorni fa vi ho raccontato delle conseguenze della cosiddetta "amnistia Togliatti", o chi per lui.
In pochi mesi le carceri si svuotano.
Vengono scarcerati delatori, spie e seviziatori fascisti. Raccontiamo alcune conseguenze di quell’amnistia.
Nel carcere “tranquillo” di Procida. dove sono stati trasferiti molti criminali fascisti («In camerate arieggiate e luminose. Vediamo il mare, spettacolo superbo la Punta di Salerno, Capri, Pozzuoli!»), arriva nel venerdì Santo 1950 il padre francescano fra Baldino della Croce.
Arriva per assistere tredici criminali fascisti.
Fra Baldino è un ex cappellano militare della Rsi.
Un fanatico fascista che celebra messa ogni volta con a fianco il ritratto di Mussolini.
Arriva nel penitenziario di Procida offrendo di sostituirsi a un criminale fascista.
Certo che sapevo di poter essere un bersaglio della mafia.
Davanti ai contadini che avevano sfilato per le vie di Corleone gridando “Terra per tutti” c’ero io, malgrado la mia giovane età.
Avevo 34 anni, sindacalista, l’uomo che turbava il sonno al boss Don Michele Navarra.
Don Michele Navarra, capo di Luciano Liggio.
Una bella coppia.
Nella primavera del 1948 i contadini del feudo Drago, guidati da un giovane sindacalista come me, turbavano il sonno di Navarra e dei suoi scagnozzi.
Gli oppressi si stavano ribellando, finalmente.
Mi detestava non solo per quello.
Da segretario della locale sezione combattenti e reduci gli avevo rifiutato il titolo di socio onorario.
«Lei non è stato combattente, tanto meno reduce». Un rifiuto che non mi aveva mai perdonato.
Non mi importava, avevo altro a cui pensare.
Qualcuno ha detto recentemente, riguardo la mafia, che "In Sicilia servono compromessi, tutti lo sanno”.
Si sbaglia.
Perchè se vuoi sconfiggere la mafia non puoi scendere a compromessi.
Se lo fai sei solo complice.
Con la mafia non si tratta.
Mai.
Lo so bene. Lo sapevamo bene. Intendo io e mio padre.
Lo dimostra il fatto che nel settembre 2014, a Siracusa, hanno danneggiato la lapide che commemorava proprio mio padre.
L'hanno tolta dal supporto metallico su cui si ergeva e l'hanno distrutta in mille pezzi.
Mi chiamo Giuseppe Francese.
Mio padre Mario era nato a Siracusa il 6 febbraio 1925, terzo di quattro figli.
Finito il ginnasio si era trasferito a Palermo a casa di una zia, la sorella della madre.
Ciò per poter completare il liceo e poi frequentare l'Università.
Un giorno nella foresta scoppiò un gigantesco incendio: animali ed uccelli fuggirono impauriti.
Mentre tutte le razze raccolte si disperavano e si lamentavano della loro cattiva sorte, il colibrì volò verso il fiume e raccolse una goccia d’acqua.
Tanta quanta ce ne stava nel suo becco.
Ritornando verso l’incendio, gli altri animali lo derisero dicendo: “Ma cosa fai?”, gli chiesero.
Il piccolo colibrì, paziente, rispose: “Faccio quello che posso!”
E fu proprio per quel “faccio quello che posso” che mi premiarono.
De Amicis avrebbe fatto di noi personaggi da libro “Cuore”.
Era il 22 novembre del 1954 quando in Campidoglio assegnarono i Premi della Bontà.
Un premio per Dario Tosi, 11 anni.
Aveva portato a spalle a scuola tutti i giorni, per un chilometro, il suo compagno malato alle gambe.
Effettivamente non ho fatto nulla di speciale.
Forse hanno ragione coloro che dicono che non ho fatto niente per avere un riconoscimento.
Non ho salvato nessuno e non ho fatto nessun gesto eroico.
Ma anche solo ricordare cos'è accaduto quel 27 luglio 1993 è devastante per me.
Oggi tutti ricordano quel giorno.
E quei morti.
Come è giusto.
I vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno.
Ricordano Moussafir Driss, quel povero marocchino che dormiva sulla panchina.
E anche lui, l'agente di polizia municipale Alessandro Ferrari.
Povero Alessandro.
Lui era di turno proprio quella sera .
Doveva essere una serata come tante. Invece. Alessandro era nato a Gandino in provincia di Bergamo e aveva trascorso l'infanzia con il padre Agostino, sarto, e la mamma Elisabetta Moro.