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E’ sempre difficile stabilire con esattezza il momento in cui ha inizio il dramma di un popolo.
Il giorno, l’ora, o il minuto esatto, perché esso matura piano piano, in una successione a volte millimetrica di fatti, spesso ignorati.
Fu così anche per la marcia su Roma.
La marcia su Roma, appunto, quella manifestazione armata eversiva organizzata dal Partito Nazionale Fascista (PNF).
Una data indicata, il 28 ottobre 1922, come l’inizio del dramma.
Ma quella marcia iniziò mesi prima.
E forse una data certa, la possiamo indicare.
Il 1° agosto a Milano.
Il fatto?
Lo «sciopero legalitario» indetto dall’Alleanza del lavoro per spronare i politici a costituire un governo che ripristini «la legge, la libertà, l’autorità» contro l’integralismo fascista.
Già, l’Alleanza del lavoro, ultimo baluardo delle sinistre
Da due anni ridotte sulla difensiva.
Stremate dalle spedizioni punitive dei fascisti del 1921 e della primavera del 1922, riuscivano comunque a mobilitare un gran numero di lavoratori, anche se ormai tutto si risolveva in un aumento di impopolarità. “Sciperomania”.
Era uno degli argomenti che più facevano presa sulla gente.
Un’opinione pubblica che aveva sì paura di quelle “colonne di fuoco” fasciste, ma vuoi mettere far uscire i tram dalle rimesse durante una serrata?
Tornando a quello sciopero, la data doveva rimanere segreta.
Purtroppo la notizia uscì per errore il giorno prima sul giornale “Il Lavoro” di Genova.
Per il segretario del partito fascista, Michele Bianchi, fu l’occasione per scatenare i suoi fedelissimi.
Spedì loro centinaia di copie di una circolare riservata (tipo leggere e distruggere)
Il contenuto?
Si ordinava ai fascisti di stroncare lo sciopero.
E così avvenne il 2 agosto, quando i fascisti iniziarono le azioni per far uscire i tram dalle rimesse.
Alle quattro l’occupazione della rimessa di Via Messina, a Porta Volta.
Alle otto tutto era pronto.
In testa la vettura 948.
Alla manovella l’Onorevole Aldo Finzi, in camicia nera e decorazioni in bella vista.
A ricevere le iscrizioni di volontari l’Onorevole Dino Alfieri, al casello tranviario di Piazza del Duomo.
Nelle vie del centro solo applausi, ai tram imbandierati.
In periferia, soprattutto a Porta Ticinese, qualche sassata.
Andò avanti così tutto il giorno, poi in tarda serata, il Prefetto Lusignoli, senatore giolittiano, provvide a nominare il Conte Lalli, commissario in Municipio per il ripristino dei servizi pubblici.
Per poi inviare un telegramma cifrato a Roma per informare il Ministro dell’Interno che: «Lo stato d’animo della cittadinanza è completamente favorevole ai fascisti, mentre da parte dei socialisti si nota una forte depressione di spiriti».
Per poi continuare.
«Allo scopo di impedire l’occupazione del Comune, ho con decreto di iersera, nominato un commissario prefettizio per la sorveglianza e l’occorrente opera di integrazione dei servizi pubblici soggetti a sciopero»
E visto che il sindaco Filippetti è a Vienna con la famiglia…
«L’Assessore Schiavi, che funziona da sindaco, ha accolto il provvedimento con rassegnazione. Le misure d’ordine pubblico, compatibilmente con le forze disponibili, sono state adottate tutte; ma non nascondo che la cittadinanza, mal tollererebbe un’azione contro i fascisti».
Giovedì 3 agosto.
Come avevano già fatto nel 1921 e nella primavera 1922 in tutta la Lombardia e non solo, anche a Milano iniziarono a distruggere le sedi delle organizzazioni dei lavoratori.
Iniziando dal circolo socialista di Via Cellini.
Poi la casa tranvieri di Via Cialdini.
Poi i fascisti assaltarono il circolo ferrovieri di Via Canonica e la Cooperativa ferroviaria di Porta Volta. Dalle 15 alle 16 fu fatto sorvolare su Porta Ticinese, il rione per loro più sovversivo, un aereo biposto pilotato dagli squadristi della «Pensuti».
Gli obiettivi degli squadristi si concentrarono su Porta Ticinese e Porta Genova.
Furono queste spedizioni, sulla via del ritorno verso le 19, a concentrarsi in piazza della Scala stracolma di folla.
Davanti a Palazzo Marino era schierata la cavalleria per il servizio d’ordine.
Fu un tassista, tale Natale Guaragna di 49 anni, a scalare una parete, a entrare e ad aprire il portone.
Fu così che le camicie nere entrarono della sede della giunta socialista.
Davanti a tutti Cesare Rossi al grido di «Viva la guerra rivoluzionaria!»
Fu Gabriele d’Annunzio a parlare dal balcone.
"In voi vedo una gioia virile e maschia allegrezza… il cuore mi trema. Mi sembra di rinnovare stanotte uno di quei grandi colloqui che solevo tenere sotto le stelle del Carnaro col popolo angosciato".
Nessun accenno al fascismo
“Uomini milanesi, è la prima volta che io mi ripresento nell’arengo del popolo dopo l’ansia, dopo l’angoscia, dopo la disperazione, dopo l’onta, dopo la gloria di Fiume, dopo quel lungo e crudo sacrifizio che a noi valse il confine giulio”.
Il Popolo d’Italia uscì con il titolo: “I baroni rossi cacciati dal Palazzo del Comune”.
Già. E pensare che i socialisti a Palazzo Marino ce li aveva messi proprio lui, Benito Mussolini, nel 1914, con una vigorosa e importante campagna elettorale sull’Avanti.
Era arrivato da Forlì il 1° dicembre 1912, a trent’anni, con una compagna bionda, Rachele Guidi e una bimbetta magra di nome Edda.
E come si usava tra i socialisti tradizionali non si era sposato, né aveva battezzato la figlia.
Mentre la famiglia era sistemata in Via Castel Morrone 19, lui stava ore dietro alla scrivania dell’Avanti per cinquecento lire al mese.
Non durò molto.
Subito dopo aver condotto Emilio Caldara alla conquista di Palazzo Marino era scoppiata la guerra.
E fu così che il consigliere comunale Benito Mussolini, presente una sola volta in consiglio, fu espulso dal partito per il suo interventismo.
Passando dalla scrivania dell’Avanti in Via San Damiano a Via Paolo da Cannobio.
“Il covo” del Popolo d’Italia
Finita la guerra aveva tentato l’avventura elettorale, ma i milanesi avevano dato alla sua lista” dove c’era anche Arturo Toscanini, solo 4.675 voti contro i 170.000 ai socialisti e i 74.000 ai popolari di Don Sturzo.
Era stato persino arrestato per tenere armi nel “covo”.
Confidò alla Malfatti: «Vendo tutto, pure il giornale. Posso fare tanti mestieri. Come muratore sono bravissimo. Potrei girare il mondo col mio violino. E poi ho il mio dramma in tre atti. Devo solo scriverlo». Purtroppo decise diversamente.
Torniamo all’assalto a Palazzo Marino.
Il prefetto Lusignoli chiese al procuratore del re Raimondi quali reati avessero commesso gli occupanti di Palazzo Marino per poterli arrestare.
Il magistrato rispose seccamente: «Nessuno!».
E la borghesia milanese fu parecchio contenta.
Ma non era ancora finita.
A domani
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