Mai avrei immaginato di scatenare tutto quel putiferio.
Allora ero un’educatrice che applicava terapie innovative per l’epoca (siamo nel 1938), rivoluzionarie nell’insegnamento, rivolte ai bambini con problemi di udito e linguaggio.
Eppure sono ricordata solo per quell’episodio
Un episodio che nulla aveva a che vedere con il mio lavoro.
Iniziato con un furto con scasso avvenuto nella mia abitazione e la convocazione del tribunale di Los Angeles come testimone.
Era il 9 novembre 1938.
E avevo 28 anni.
Mai immaginando quel che sarebbe successo
Quando entrai il tribunale il giudice Arthur S. Guerin, vedendomi, diede in escandescenze decidendo di sospendere il processo per 5 giorni.
Che avevo combinato per farlo arrabbiare in quel modo?
Qualcosa di terribile.
Per lui.
Mi ero presentata vestita con un paio di pantaloni.
Lo so, era una cosa gravissima a quei tempi.
Era scritto pure nel capitolo 22 del Deuteronomio, quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana.
Ma allora eravamo nel VI-V secolo a.C., accidenti. Qualcosa doveva pur essere cambiato.
Non proprio visto che nel mio Paese, gli Stati Uniti, altre donne erano state arrestate per aver indossato i pantaloni.
Ma anche in Europa non avevano scherzato se è vero che indossare i pantaloni fu una delle “colpe” per cui Giovanna d’Arco finì sul rogo nel 1431 a soli 19 anni.
Comunque non ero certo la prima.
Durante il 1800 altre donne avevano avuto il coraggio di indossare un paio di pantaloni.
Tra queste la pittrice Rose Bonheur e la scrittrice George Sand.
E poi la dott.ssa Mary Edwards Walker, prima donna a ricevere la medaglia d'onore congressuale nel 1865 per il suo servizio durante la guerra civile.
Fu arrestata diverse volte per quello.
E anche Emma Snodgrass, arrestata nel 1852.
Ma torniamo a quel giorno in tribunale.
A quando il giudice sospese per cinque giorni il processo intimandomi di tornare con un abbigliamento più femminile.
Quello che il giudice non sapeva, è che mai avrei ubbidito a una richiesta del genere.
Infatti il 14 novembre mi ripresentai davanti allo stesso giudice con un bel paio di pantaloni.
Lo avevo pure dichiarato al Los Angeles Times:“Dite al giudice che farò valere i miei diritti. Se mi ordina di mettermi un vestito, non lo farò. Mi piacciono i pantaloni. Sono comodi"
Quando mi vide, il giudice andò su tutte le furie.
Mi accusò di aver “sfidato apertamente la corte”
E aggiunse:”La corte le ordina di tornare domani con un abito adatto. Se insiste nell' indossare i pantaloni, sia pronta a essere punita secondo la legge, per oltraggio alla corte”
Naturalmente non mi feci intimidire.
Ritornai con un bel paio di pantaloni.
In fondo qualche giorno in prigione avrebbe potuto aiutare tutte le altre donne a liberarsi da uomini anti-pantalonisti.
Il giudice mi guardò con disprezzo e mi condannò a cinque giorni di prigione.
In prigione fui costretta ad indossare l’abito delle detenute.
Non fu difficile per il mio avvocato ottenere il rilascio immediato.
In seguito la Corte d’appello sancirà il mio diritto (e di tutte le donne) di indossare un paio di pantaloni anche nei tribunali.
E fu così che il 17 gennaio del 1939 ritornai in tribunale come testimone del furto subito in casa. Avevo vinto su tutta la linea.
Da quel giorno le donne non erano più obbligate “a vestirsi con abiti più femminili”.
Caduto l’obbligo mi presentai davanti al giudice con la gonna.
Fu grazie anche a quella mia battaglia che oggi le donne possono dire di aver vinto una millenaria battaglia.
Quella vestiaria.
Almeno quella.
Perché l’hanno vinta vero?
Non ditemi che c’è ancora qualcuno che ha qualcosa da dire sull’abbigliamento delle donne.
Dimenticavo.
Mi chiamo Helen Hulick.
«Non sono i ribelli a creare problemi, ma i problemi a creare i ribelli» (Ruth Messinger)
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