“Le donne sono inadatte a scalare montagne. Devono stare tranquille in casa a servire il tè e fare le pulizie.”
Fu per quello che nel 1969 fondai il "Ladies Climbing Club" (LCC) i cui membri erano tutte donne.
Non la presero bene.
I maschietti, intendo.
Perché io ero una donna.
E nella società giapponese la donna doveva limitarsi ad accudire la casa e a crescere i figli. Una cosa nuova, vero?
Mi chiamo Junko Tabei, Ishibashi il cognome da ragazza, nata nel 1939 a Miharu, nella prefettura di Fukushima.
Sono cresciuta in una famiglia relativamente povera, condizionata dalla II guerra mondiale. Un famiglia molto numerosa, la più giovane di sette figli.
Quando nacque la mia passione per l’alpinismo?
A 10 anni, durante una gita scolastica sul monte Asahi a 2300 metri di altezza
Ero un vero macho. Alta, grossa...
Dai, non è vero, sto scherzando.
Ero uno scricciolo, alto un metro e cinquantadue e un problema congenito ai polmoni che mi provocava spesso febbre alta. Non ero una grande atleta, ma mi allenavo quotidianamente.
E avevo tanta, tanta volontà.
Studiai per diventare insegnante laureandomi in letteratura inglese a Tokyo.
Ma la passione per le montagne non mi abbandonava.
Fu per quello che fondai quel club per sole donne nel 1969.
“Andiamo a fare una spedizione all’estero, da sole".
Il sogno di ogni alpinista?
Lei, la montagna più alta del mondo.
Il posto più pericoloso al mondo.
Volevo salire sull'Everest, seguendo la stessa via del neozelandese Edmund Hillary del 29 maggio 1953.
Nel 1970 ero stata la prima donna a raggiungere i 7.555 metri della terza vetta del massiccio dell'Annapurna.
Fu subito dopo che diedi vita al progetto "donne giapponesi per la spedizione sull'Everest" riuscendo ad ottenere dal Nepal il permesso per guidare 15 donne.
Ci allenammo cinque anni e nel maggio del 1975 iniziammo la scalata. Eravamo a 6.300 metri quando fummo travolte da una valanga. Nessuna ci rimise la pelle, anche se io svenni per qualche minuto. Ripresi la salita,accompagnata solo dallo sherpa, Ang Tsering. Tutto a posto? Magari
Eravamo arrivati a 8.763 metri.
Il mio caro sherpa non mi aveva avvisata.
Per arrivare alla vetta, 8.848 metri, avrei dovuto superare un costone che formava il confine tra il Nepal e la Cina.
Sbagliando potevo precipitare per 5.000 metri in Cina o 4.700 metri in Nepal
Ma ce la feci e diventai la prima donna a scalare l’Everest.
Io Junko Tabei, lo scricciolo.
Era il 16 maggio 1975, 12 giorni dopo la valanga.
Riuscirono a scrivere lo stesso cattiverie. “Scala la vetta e lascia a casa sua figlia con il padre”.
Mio marito era un alpinista.
Junko Tabei, nel 1991, raggiunse la vetta del Monte Vinson: la cima più alta dell'Antartide. Nel giugno del 1992, salendo il Puncak Jaya in Indonesia, divenne la prima donna a completare le Seven Summits, le montagne più alte per ciascuno dei sette continenti della Terra.
Nel 2000 completò uno studio all'università di Kyushu sul degrado ambientale dell'Everest, causato dai rifiuti abbandonati dalle spedizioni.
Dalla prima spedizione sull’Everest, al primo campo base a 5.364 metri di quota, gli scalatori hanno scaricato 1,03 milioni/litri di urina
Nessun, problema, se non fosse che gli abitanti dei villaggi ai piedi dell’Everest dipendono dalle acque del disgelo.
Dal 2008 lo sherpa Dawa Steven guida una spedizione annuale per raccogliere tutti i rifiuti.
Ha recuperato già circa 15 tonnellate di rifiuti.
Junko Tabei, direttrice dell'Himalayan Trust of Japan, ha realizzato un inceneritore per eliminare i rifiuti sull’Everest.
E’ morta il 20/10/2016 a 77 anni.
Qualche mese prima di morire, guidò, sul monte Fuji, un gruppo di giovani, sfollati a seguito del disastro di Fukushima.
Grazie a @Ulyfey per avermi chiesto di raccontare la storia di Junko Tabei, che tutti volevano a casa a fare le pulizie.
Lei invece aveva una sola filosofia: vivere la vita al massimo.
Sempre.
Tanto le pulizie possono aspettare.
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Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.
Basta sfogliare l’Annuario Pontificio 2023, che include Papa Francesco, per sapere che ci sono stati 266 regni dei pontefici.
Se non l’avete letto vi confiderò un segreto.
Ci sono stati 266 regni dei pontefici, ma non ci sono stati 266 Papi.
Poffarbacco, e come mai?
Perché nell’elenco io compaio ufficialmente per ben tre volte, tutte riconosciute come valide.
Non solo.
Voi pensate che Benedetto XVI sia stato l’unico Papa a dimettersi.
Invece si dimisero anche Clemente I, Ponziano, Celestino, Gregorio XII e…il sottoscritto.
Non solo.
Lo sapevate che nel 1046, caso unico, quattro Papi occuparono contemporaneamente il trono di San Pietro?
Furono Silvestro III, Gregorio VI , Clemente II e…il sottoscritto.
Dimenticavo.
Sono Papa Benedetto IX, nato Teofilatto.
Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/4j4VsUB
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline.
Con quei bei cannoni tutti neri.
Il morale alto.
Pronto a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli".
Il primo sparo?
Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer.
Resistemmo fino all’impossibile.
Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata.
Un durissimo colpo
(Bragation morirà il 12 settembre)
“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino.
Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so.
Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli.
Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi.
Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta.
Con strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
Ieri Johannes ha dato voce ad Alexander Selkirk, il pirata la cui storia, secondo alcuni, è la stessa raccontata da me nel libro “Robinson Crusoe”.
(Leggete qui )
Non è così.
Per cui ritengo giusto portare alla vostra conoscenza la mia versione. bit.ly/4k5qo81
E’ vero, andai da Alexander per sentire dalla sua voce quella storia che girava ormai da anni.
I suoi quattro anni e quattro mesi passati sull’isola Juan Fernández.
Il mio Robinson è quindi Alexander Selkirk?
Una definizione avventata, e in quanto tale, assolutamente inesatta.
Come avrete capito mi chiamo Daniel Defoe.
E vi farò una confessione.
Dalla vicenda di Alexander, che avevo conosciuto attraverso gli scritti di Rogers e dello Steele, e approfondita durante l’incontro con lo stesso Alexander, ho preso solo lo spunto.
Nulla più.
Fui sicuramente uno dei primi a leggere quel romanzo, uscito esattamente il 25 aprile 1719.
E non potei fare a meno di rilevare un sacco di inesattezze.
Per me era chiaro.
Quello che lo aveva scritto non aveva mai vissuto ai tropici.
C’erano un sacco di errori e imprecisioni.
Come quel personaggio inseguito dai selvaggi che non sapeva nuotare.
Assurdo.
E cosa dire del protagonista che, in un’isola del Sudamerica, si era messo a costruire una palizzata per proteggersi dalle bestie feroci?
Altra assurdità.
E poi foche, pinguini, alle foci dell’Orinoco.
A quei tempi ero sottotenente sulla nave Weymouth della marina di S.M. britannica.
Non mi intendevo di cose letterarie, avevo letto si e no la Bibbia, ma in quel caso avevo diritto più di chiunque altro di esprimere la mia opinione.
Perché il protagonista di quel libro, ero io.