Le foto sono del mio collega David Sherman.
Il giorno? Il 30 aprile 1945. Il luogo? Un’abitazione a Monaco, al 16 di Prinzregentenplatz. Io che faccio il bagno. Mentre il proprietario dell’appartamento si toglieva la vita in un bunker di Berlino.
Non ero in quell’appartamento per caso. Lo avevo fatto intenzionalmente. Volevo lavarmi dallo sporco che mi aveva ricoperta durante la visita al campo di concentramento di Dachau.
Un bagno nella vasca di Hitler.
Mi chiamo Lee Miller e sono nata a Poughkeepsie, nello stato di New York il 23 aprile 1907.
Papà Theodore era un inventore tedesco con la passione della fotografia. Una passione che mi aveva trasmesso fin da piccola.
Già. Fin da piccola. E da piccola subii la violenza che cambiò tutto il mio essere donna. Avevo sette anni. La mamma in ospedale e io affidata ad amici a Brooklyn. La violenza.
E quella maledetta gonorrea che mi trascinai per anni.
Fu in quel preciso momento che, malgrado tutti mi vedessero come un angelo tanto ero bella, diventai un demonio dentro.
Amavo l’arte in genere. Nel 1925 andai a l’École nationale supérieure des beaux-art e poi alla Art Students League di New York per studiare scenografia.
Fu proprio in quell’anno che la mia vita cambiò. Camminavo a Manhattan.
Fu una fortuna che in quel momento stesse passando accanto a me il signor Condé Nast, editore di Vogue. Che mi afferrò prima che quella macchina mi travolgesse.
Forse fu il mio fascino. Fatto sta che mi offrì un lavoro come modella. Un caso. Che mi fece diventare la modella più ricercata dai più grandi fotografi di quel tempo.
Da Edward Steichen a Arnold Genthe.
Fino al 1928. Quando uno scandalo fece finire la mia carriera di modella. Che avevo fatto di così tanto grave? Una foto che mi ritraeva per una pubblicità di assorbenti.
Per la prima volta una donna pubblicizzava qualcosa di così intimo. Un vero scandalo.
Ne fui quasi felice. Cominciava a starmi stretto il ruolo davanti all’obiettivo. Io volevo fotografare. Per questo fuggii a Parigi dove conobbi una grande fotografo, Man Ray. Diventai sua allieva, musa e amante.
Poi la mia vita prese strade diverse.
Prima uno studio tutto mio a New York poi in Egitto e poi nel 1937 di nuovo a Parigi.
Dove conobbi e mi innamorai di Roland Penrose, pittore e poeta inglese.
Con lui mi stabilii a Londra. Dove scattai quelle foto sotto il blitz delle V2 naziste. Quando lui venne chiamato alle armi diventai una fotoreporter di guerra. Un incarico che difficilmente veniva assegnato ad una donna.
Fu così che vidi l’orrore.
Quando visitai i campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, o quando visitai le prigioni della Gestapo.
Sviluppavo personalmente le pellicole in una camera oscura improvvisata nella mia stanza d'albergo.
Ero fotoreporter di guerra per Vogue. Mi chiesero più volte se quello che vedevano nelle foto fosse reale. Era tutto vero. Avevo solo impresso sulle pellicole tutte le mostruosità di cui è capace l’uomo.
Un incubo per una come me.
Un incubo che sconvolse la vita di Lee Miller. Aveva quarant’anni quando iniziò a bere, soffrire di insonnia e di depressione nonostante la nascita di Anthony.
Il tradimento del marito e l’accusa di essere una spia sovietica segneranno il resto della sua vita.
Lee Miller morirà il 21 luglio 1977 dimenticata da tutti. Lei, una delle più grandi figure femminili della fotografia. Le ceneri sparse nel suo giardino. Il figlio Anthony ha scritto la biografia di sua madre "The Lives of Lee Miller” impegnandosi a promuovere l’opera materna.
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Se ho mai sentito la frase:"E' roba da uomini?"
Hai voglia.
Sono cose che dicono da sempre a noi donne.
Sei donna?
Mica puoi fare questo!
Mica puoi fare quello!
Non puoi certo avere il coraggio di guidare un'auto da corsa e battere i maschi!
Ricordo che era il 1962.
Ero una dei piloti di rally di maggior successo. Svedese.
Probabilmente non sarei mai andata a quella corsa in Argentina, una delle più dure al mondo.
Poi cosa mi vengono a dire?
Che non sarei mai stata capace di finire quella corsa. Figuriamoci vincere.
Ora.
So benissimo come siamo considerate noi donne quando si tratta di motori.
So anche che se chiedi ad una bambina cosa vuole fare da grande difficilmente risponderà “pilota di auto”.
Lo so.
Quello che voi forse non sapete, è questo.
Non bisogna mai sfidare una donna.
Mai.
“Pilotino” mi chiamavano.
Rispetto ad oggi altro che pilotino.
Provate a farli correre con la Maserati dei miei tempi. Con quel volante che mi stampava una mezza smorfia ogni volta che lo dovevo girare, con il cambio in mezzo alle gambe e con l’acceleratore e freno invertiti.
Come sono arrivata, una contessa che abitava nel Palazzo Bianco di Merigliano e con un papà ingegnere che aveva elettrificato l’irrigazione in Campania, su un circuito?
Sinceramente non lo so.
Io amavo i cavalli.
Erano i miei fratelli che amavano correre.
Sono nata a Napoli l’11 novembre 1926.
E proprio grazie alla passione di due dei miei quattro fratelli, vinsi proprio in provincia di Salerno la mia prima gara.
Era il 1948 e su una Fiat Topolino 500 vinsi la 10 Km di Cava de' Tirreni.
E tutto per una loro scommessa
Cosa abbiamo i comune noi quattro?
Quelli della foto intendo.
Due cose.
La prima.
Siamo quattro pionieri della cardiologia interventistica.
Nella foto siamo all’Università di Zurigo nell’agosto del 1980.
Ricordo che era un meeting sull’angioplastica.
Mason Sones (a destra) fu quello che eseguì la prima arteriografia coronarica il 30 ottobre del 1958. Possiamo dire in un modo del tutto casuale.
Quando accidentalmente il mezzo di contrasto finì all’interno della coronarica di destra.
Malgrado ciò il cuore non andò in fibrillazione.
Da quell’esperienza Sones comprese che piccole quantità di mezzo di contrasto non erano mortali per i pazienti.
Ciò avrebbe permesso di studiare meglio l’albero vascolare cardiaco.
Perché non ho mai vinto le Olimpiadi?
Bella domanda.
So solo che ad ogni partecipazione era sempre la solita storia: “non corrisponde agli schemi tradizionali”.
Mi chiedo, ma quale progresso puoi ottenere seguendo solo schemi tradizionali, facendo sempre le stesse cose?
Se parliamo di sport.
Dick Fosbury ha seguito uno schema tradizionale?
Ulrich Salchow, svedese, primo campione Olimpico nel 1908, ha seguito uno schema tradizionale facendo il primo salto Salchow nel 1909?
Ma per piacere.
Chi sono?
Sono Surya Bonaly.
E questa è la mia storia.
Sono nata sull’isola della Riunione, un'isola dell'oceano Indiano occidentale
A 18 mesi sono stata adottata da una coppia di Nizza. Fu mia madre ad insegnarmi a pattinare.
Ma praticai anche ginnastica artistica a livello agonistico.
Fu quello che mi aiutò ad entrare nella storia
Sto morendo dissanguata.
Sento il sangue scorrere accanto a me mentre ripenso a quello che è stata la mia vita nei palazzi dorati.
Mai immaginato di poter finire in questo posto.
Ma dopo essere passata per il campo di smistamento a Bolzano mi avevano portata qui, vicino a Weimar
Ricordo l’entrata, e quel cancello con la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”.
Non sapevo cosa volesse dire, ma non mi ci volle molto per capirlo.
Significava essere arrivati all’inferno: l’inferno del campo di concentramento di Buchenwald.
Era il 18 ottobre del 1943.
Il mio nome è Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana, principessa d’Italia, Etiopia e d’Albania, figlia di Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro. Sposata col principe tedesco Filippo Langravio d'Assia-Kassel.
Inverno 1944 – Mi chiamo Sara e ho tredici anni.
Tre anni fa vivevo in Lituania con tutta la mia famiglia, poi erano arrivati i tedeschi.
Mio padre e mio fratello erano stati rinchiusi nella "Fortezza numero sette".
So che sono stati uccisi, con altre centinaia di ebrei.
Ero stata separata da mamma e da mia sorella.
Loro portate altrove, non so dove.
Io, a soli 10 anni, rinchiusa in un campo per bambini.
Per ben tre anni.
“Avevo perso totalmente la nozione del tempo, non sapevo più che giorno fosse, notavo soltanto il cambiamento delle stagioni”
Era un giorno d’inverno quando i tedeschi radunarono noi bambini per caricarci su dei carri bestiame.
Fu un viaggio lungo.
Quando il treno arrivò faceva freddo.
Fa sempre molto freddo d’inverno ad Auschwitz.
Mi chiamo Sara e come detto ho tredici anni.