«È bruttino, ma ha una bella espressione».
La prima impressione non fu certo tra le migliori. Ma io non ero brutto. Avevo solo orecchie più lunghe del normale. Tutto qui.
Ma la capivo. Pedro era Pedro.
Ed io solo un eventuale sostituto.
Per mamma Elena Pedro, bellissimo, lo era sempre stato. Fin da piccolo. Anche quando, pur rimanendo sempre magro, si era accorta che cresceva prima in altezza e poi in lunghezza. Avrebbe desiderato tanto averlo vicino in un giorno come oggi.
In quella sala consiliare del municipio di Cassago Brianza, Elena e Riccardo si stavano per sposare. Un giorno speciale quel 28 ottobre 2017. Per loro.
Quello che ancora non sapevo era che lo sarebbe stato anche per me.
Riccardo glielo aveva detto proprio quella mattina.
«Ieri ho fatto un giro tra i veterinari. E a Montevecchia ho trovato un cucciolo».
Lei si era messa a piangere.
Perché proprio quel giorno, il giorno del compleanno di Pedro?
Come Pedro era stato un regalo di Natale, io sarei stato il suo regalo di nozze?
Pedro era ovunque. Persino sui sedili dell’auto. Tutti quei peli che difficilmente se ne sarebbero andati. Come i ricordi.
Le passeggiate al mare col suo carrellino, le sue ultime sofferenze.
L’eutanasia, un atto d’amore? Stentava a crederlo.
E poi la decisione. E il ritorno a casa con la cuccia vuota. Ma lei lo continuava a vedere. Continuava a parlare con lui. Sentiva persino le sue zampe quando le saltava addosso e la riempiva di baci e di leccate. Pedro non se n’era andato. Era sempre lì.
E poi Riccardo aveva trovato me. Brando all’anagrafe. Avevo solo tre mesi. Venivo dalla Calabria. In stallo a Merano, da un’amica della veterinaria, Martina, che mi aveva chiamato Rocket. In attesa di sistemazione.
Ero rimasto solo io. La mia mamma e i miei otto fratellini già sistemati. Qualcuno si sarebbe preso cura di me? Mai avrei pensato che proprio in quel momento quel qualcuno si stava per sposare.
Sarebbero andati in viaggio di nozze?
Ci erano andati. Niente viaggi esotici però. Nella casa al mare, a Levanto.
«Cosa stiamo a fare a Cassago? Veniamo ad abitare al mare, a Levanto. Passeggiate sulla spiaggia tutto l’anno, camminate tra i bricchi, tutti i toni del verde sulle colline, il profumo di salsedine».
Elena non smetteva di pensare a Pedro.
Fu Riccardo a distoglierla da quel pensiero fisso. «E se lo chiamassimo… Giatt?» le propose. Stava parlando di me.
«Visto che lui è tutto orecchie lo chiameremo Giatt, da Uregiatt!».
Uregiatt, dotato di grandi orecchie.
Pur di trovare una famiglia ero disposto ad accettare anche quel nome.
«Ma dai, Giatt non è un nome».
«Perché no? Sarà il suo nome, lo avrà solo lui al mondo».
Se devo essere sincero, ne avevo viste di tutti i colori e quel balletto tra Brando/Rocket/Giatt non era niente al confronto.Certo, confuso ero confuso. Credi di essere Brando e ti chiamano Rocket.E poi un domani Giatt. Avrei voluto almeno qualche certezza. Che fine avrei fatto?
Poi avevo sentito Martina al telefono chiedere «quando?» mentre mi accarezzava la pancia. «Quando che?Era un buon segno?Un regalo di nozze? Che regalo? Cosa stanno tramando? Meglio che mi faccia un pisolino, via».
Sentii un soffio nell’orecchio.
«Oggi sarebbe il mio compleanno»
«Chi aveva parlato? Non c’era nessuno vicino a me».
«Si sono voluti sposare oggi, come se io fossi con loro e mai sarei mancato».
«Oh, ma che scherzo è? Chi sei?»
«Starai bene, vedrai, sei fortunato».
«Vieni fuori, non facciamo scherzi. Non è che sto diventando matto?»
E poi Elena e Riccardo erano andati dalla volontaria, Martina.
«Cos’è questa confusione? Chi sono quei due? Non voglio guardare, non voglio vedere. Mammaaaa!!! Io mi chiamo Brando, non Giatt. Che vuoi? No, non esco. Lasciami stare!
No, non voglio! Aiuto! Mamma!»
E poi l’arrivo a casa. «Mi spiace per questo piccolino, ma ho ancora Pedro nel cuore e un dolore profondo, fitte atroci solo a pensarlo».
Io mi sono rannicchiato sul tappeto della cucina. Questa dovrebbe essere la mia nuova casa. Sto tremando, ma controllo tutti i loro movimenti.
«Ecco, adesso si ragiona. Questo è il rumore di crocchette che cadono nella ciotola. Ottimo».
Per Elena fu uno sforzo notevole. Giatt non era il suo cane, non ancora. Elena cercava Pedro e lui non c’era, c’era un altro.
Toccarlo non le dava le stesse sensazioni.
«Non sono tranquillo. Preferisco conoscerli meglio. Perché continuano a toccarmi? Oddio che rumore, cos’è? Ma chi è questa. La zia Mari? All’erta!! Pericolo!!».
«Ciao, Giatt, vieni dalla zia»
«Chi sei? Che vuoi? Perché dici che Pedro era più bravo di me?. Pussa via.»
«Ciao Giatt».
«Oddio, e tu chi sei?»
«Sono Pedro. Stai tranquillo. Andrà tutto bene. Qui starai benissimo. Io lo so. Ci ho vissuto anni meravigliosi».
«E adesso dove sei?»
«Sul ponte dell’arcobaleno. Con tanti amici».
Ho scritto questo thread dopo aver letto un bellissimo libro. Si intitola “Io ho sempre parlato” di Amelia Belloni Sonzogni @fattukk. A molti di noi è capitato di perdere un amico peloso. Come dice l’autrice la storiella del ponte dell’arcobaleno è bellissima, ma consola poco.
Sostituirlo con un nuovo amico non è sempre facile. Ci vuole il tempo necessario. In realtà nessuno può sostituire l’amico che se n’è andato.
Ma come dicono i protagonisti Elena e Riccardo... “però il proposito è quello di salvarne un altro dal canile”.
Amelia Belloni Sonzogni nel libro fa parlare i cani. Noi, che con loro passiamo la vita, lo sappiamo benissimo che loro ci parlano in continuazione. Non usando solo la bocca, ma ogni parte del corpo, possiamo affermare senza ombra di dubbio che sono degli autentici chiacchieroni.
Una cosa importante. Tutto il ricavato delle vendite di questo libro andrà al canile “Il rifugio di Francy” a Palermo. @francycognato. Uno dei rifugi più popolosi e poveri di Palermo, tenuto in piedi da una sola persona, Francesca Cognato.
Un motivo in più per acquistarlo.
Nelle foto contenute in questo thread potete vedere l’autrice del libro col suo cane.
Lui si chiamava Pedro. Sì, proprio lui, il Pedro del libro. Che le parla ancora oggi.
«Scusa Johannes, stai invecchiando? Non hai dimenticato qualcuno? Va beh, devo fare tutto io. Vi informo che quello nella foto sono io, Giatt. Sì, quel Brando/Rocket/Giatt. Chissà se Johannes si ricorderà di farmi gli auguri. Domani è il mio compleanno».
«Scusa Giatt. Auguri».
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Essere un Pico della Mirandola.
Uno dei tanti personaggi simbolo di una qualità particolare o di un determinato comportamento.
In questi caso si dice di una persona con una memoria portentosa.
Giovanni Pico pare conoscesse a memoria tutta la “Divina Commedia.
Anche al contrario.
Anche essere "un Quisling" è riferito a un determinato comportamento.
Si dice di una persona o meglio di un politico che per fanatismo ideologico è capace di tradire, di mettersi al servizio di Paesi stranieri in cambio di soldi e potere.
Ecco.
Quisling fu anche peggio.
Vidkun Quisling allo scoppio della seconda guerra mondiale era maggiore dell’esercito norvegese .
Avere 52 anni significava essere nato quando la Norvegia faceva parte dello Stato Svedese.
Solo il 26 ottobre 1905 era stata riconosciuta in modo pacifico la sua indipendenza.
Nei due thread precedenti abbiamo raccontato della Conferenza di Yalta.
Abbiamo terminato con la morte di Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, avvenuta il 12 aprile 1945, stroncato da emorragia cerebrale a 63 anni.
Venne sepolto il 15 aprile nel «giardino delle rose rosse.
Il vice presidente Truman in quel momento era al Senato.
Corse alla Casa Bianca e fu la moglie del Presidente a comunicargli la notizia.
Telefonò a casa e chiese alla moglie Bess e alla figlia Margareth di raggiungerlo.
Giurò come 33° Presidente degli Stati Uniti alle ore 19.
Truman, avvocato sessantunenne, è di origini modeste.
Suo padre un povero fattore.
Dopo essersi laureato in legge Truman si era arruolato, ma un difetto alla vista gli aveva precluso la carriera militare.
Diventato commerciante, nel 1921 era fallito. Diventando assicuratore.
Dove eravamo rimasti con l’ultimo thread?
Sì, ora ricordo.
Al 4 febbraio 1945 e l’inizio della Conferenza di Yalta.
È una domenica soleggiata e calda.
È Roosevelt a presiederla.
E la prima discussione è riservata alla Polonia, ai suoi confini e assetti.
Ha inizio il confronto.
La Polonia non è un argomento facile.
I sovietici hanno sì liberato il Paese, ma come governo provvisorio hanno istituito un «comitato di Lublino», naturalmente filo sovietico.
Un governo provvisorio subito in conflitto con l’altro governo polacco di Mikolajczyk, in esilio.
In esilio a Londra dal 1939 quando la Hitler e Stalin si erano spartiti la Polonia.
È Churchill a parlare per primo.
«Per la Polonia noi abbiamo sfoderato la spada […] Non potremo mai accettare una soluzione che non le garantisca la libertà, l’indipendenza e la sovranità»
L’assetto del mondo, una volta finita la guerra, era stato deciso una prima volta il 14 agosto 1941 con la «Carta Atlantica».
Stilata da Roosevelt e Churchill sulla corazzata «Prince of Wales».
Un documento dove si enunciavano i principi di cooperazione su cui fondare la pace.
In quel momento l’Europa era saldamente in mano ai tedeschi e gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra.
Ma in quella Carta c’era già l'auspicio che, dopo la distruzione finale della tirannia nazista, potesse sorgere una condizione mondiale dominata da pace e stabilità.
Nella Carta dichiaravano di non aspirare ad ingrandimenti territoriali.
Non volevamo mutamenti di confini non voluti liberamente dai popoli interessati, rispettando il diritto dei popoli all’autodeterminazione e ridando l’autonomia ai popoli che ne erano stati privati.
Era il 1695 e la nave su cui ero imbarcato, la Victoire, aveva attraccato al porto di Napoli in attesa di partire per le Antille.
Pensai bene di recarmi a visitare Roma, magari sarei riuscito a fare un saluto al Santo Padre.
Mi chiamo Oliver Misson, figlio di un nobile di Provenza, con la passione per l’avventura.
Per questo avevo abbandonato l’accademia militare per imbarcarmi sulla nave da guerra francese Victoire comandata da un mio parente, il capitano Fourbin.
E fu proprio a Roma che conobbi quel frate italo-domenicano, tale Caraccioli.
Aveva abbandonato il saio, troppo rigida e devota ai potenti la sua vita.
Aveva così deciso di girare il mondo per propagandare le sue idee.
Idee.
Più che idee un sogno.
Che ci faccio fuori dalla chiesa in Piazza Don Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma?
Non mi lasciano entrare in chiesa.
O meglio.
Non ci lasciano entrare in chiesa.
Come è possibile?
È possibile sì.
Forse è meglio che vi racconto quando, e come tutto è cominciato.
Non ero mai stata a Roma.
Erano gli anni 70 e da San Candido in Alto Adige ero venuta in gita con la parrocchia.
E poi quel pomeriggio, libero per tutti.
Io ero sola.
Nessuna amica, niente fidanzato, nessun familiare. Andare da sola per Roma non fu una bella idea.
Perdersi fu un attimo.
Ricordo che fu lui ad avvicinarsi.
Gli chiesi come arrivare a Piazza Venezia.
Fu il mio accento a tradirmi.
Tedesca?”, mi chiese.
No”, risposi, “vengo dall’Alto Adige”.
“Ah, dove prendete in giro gli italiani!”.
La nostra storia d’amore iniziò quel giorno.