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No, non è stato un rapimento.
Almeno è stato evitato il solito stupido chiacchiericcio sul pagamento di un riscatto da parte del Governo italiano.
E la classica conclusione che in fondo “se l’è cercata”.
No, non è stato un rapimento.
E non me la sono cercata.
Però non è stato nemmeno un suicidio come riportato dalle autorità locali.
Una scena ben confezionata certo, con quelle ferite da taglio e io appeso ad una corda. Immagino il dolore dei miei familiari e dei miei amici.
Nessuno di loro crederà mai che mi sono tolto la vita.
Era tutto pronto per il ritorno a casa.
Il mio contratto scadeva alla fine di agosto, ma avevo deciso di anticipare prenotando un biglietto aereo per il 20 di luglio.
Il perché lo avevo detto a mamma Anna. Ero preoccupato, agitato per certe mie intuizioni. In un guaio serio.
Volevo “bagnarmi nelle acque di Napoli per ripulirmi da tutto lo sporco che aveva macchiato le mie ultime settimane”.
Dovevo lasciare la Colombia al più presto.
Volevo riabbracciare mamma, papà e le mie sorelle. E tutti i miei amici.
Invece mi ha ritrovato senza vita la mattina del 15 luglio una mia amica e collega.
Non vedendomi arrivare era venuta a cercarmi nella mia casa di San Vincente del Caguán. Chissà lo spavento, povera.
Che ci facevo in quel paese sperduto della Colombia?
Una lunga storia.
Mi chiamo Mario, nato a Napoli nel 1987.
Da piccolo dicevano che ero un ragazzo allegro e vivace, con l’argento vivo addosso.
E’ vero, non stavo mai fermo.
E mi piacevano le cose difficili.
In fondo era l’unico modo per prevalere nello sport che amavo.
Il basket.
Non ero molto alto, ma sul campo diventavo un colosso. Ricordo che al liceo, nell’ora di educazione fisica, sfidavo i ragazzi più alti di me nell’uno contro uno.
Anche quando davo loro 8 punti di vantaggio finiva sempre 10-8 per me.
Quella naturale tendenza a scalare l’insormontabile mi ha seguito per tutta la vita. Ero curioso. Volevo sapere.
Per quello studiavo, approfondivo, mi informavo di tutto.
Era diventata una vera passione quella di voler conoscere tutto quello che mi circondava.
Non starò a raccontarvi tutto il mio percorso. Vi dirò solo che dopo la laurea in Scienze Politiche iniziai a scrivere collaborando con blog e medie testate decidendo poi di fondare a Parigi il blog “CafeBabel”.Articoli, analisi giornalistiche.
Poi un progetto finanziato dall’UE
E poi in Argentina per sei mesi come supporto ad un progetto Onu, e come membro dell’associazione “Organizacion Argentina de Jovenes para le Naciones Unidas”.
Un grosso impegno. Organizzavo corsi e scuole nelle zone più povere del luogo.
E poi a Palermo e in Giordania.
Era dura organizzare raccolte fondi, recuperare zone rurali, promuovere attività culturali. Supportare giovani e minoranze del mondo. Un’impresa. Quasi impossibile a volte, con svantaggi anche di otto punti.
Come nel basket, non mi sono mai arreso
Nel 2016 il progetto più ambizioso di tutti.
Mi chiesero di unirmi alle Brigate di Pace Internazionali (PBI) come ufficiale di collegamento.
Dovevo garantire la sicurezza e l’incolumità dei difensori dei diritti umani, e di tutti quelli come me. A Bogotá.
Conoscevo i miei limiti. E conoscevo i rischi. Ma facevo bene il mio lavoro. Ero un vero professionista. Tanto da venirmi affidata l’incolumità del media team di Papa Francesco, durante la sua visita in Colombia. Non ero certo partito “andandomela a cercare”, quello è certo.
E poi nel 2018 venni assunto dall’ONU come Field Officer in una delle zone più calde del pianeta: Caquetà, il Dipartimento più pericoloso della Colombia.
Sì, quello nell’Amazzonia colombiana in cima alla classifica per alberi abbattuti.
Il cuore del narcotraffico.
Per le Nazioni Unite dovevo verificare gli accordi di pace tra il governo e le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia).
Una missione difficile e delicata, dopo oltre 50 anni di guerra civile.
Tra guerriglia, narcotraffico, istituzioni, sospetti e accuse.
E poi il lockdown.
Mi avevano imposto la quarantena, per questo lavoravo da remoto.
E poi quel diverbio con i miei superiori. Raccontai tutto a mia madre. Che ero preoccupato.
E che sarei rientrato prima del previsto. Invece…
Alle 22.45 del 14 luglio Mario Paciolla si connetterà per l’ultima volta a Whatsapp.
Il giorno successivo verrà trovato senza vita e la polizia classificherà tutto come suicidio.
Ora del decesso, intorno alle 02.00.
Cosa sia successo quella notte rimane un mistero.
La salma di Mario è rientrata in Italia.
Il ministero degli Esteri ha affermato di non aver ricevuto per tempi tecnici “nessun documento sull’autopsia svolta in Colombia”.
Un’altra difficile verità, dopo quella di Giulio Regeni, torturato e ucciso in Egitto nel 2016.
“Vogliamo la verità. (...) Non mi rassegno alla scena del suicidio (...) Lo Stato italiano deve ascoltarci, deve aiutarci a scoprire la verità. (...) Non è possibile che il nostro Mario, un brillantissimo viaggiatore del mondo e osservatore dell'Onu, si sia tolto la vita".
C’è una petizione da firmare che chiede alle autorità di fare luce sulle circostanze della sua morte.
Facciamolo, affinché non diventi un altro caso Regeni.

bit.ly/2P6fwul
“Continuiamo a lottare, affinché quello che è stato e quello per cui ha lottato Mario non si perda”.

Grazie a @sanacore_ per il disegno.
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