Quando mio figlio decise di partire per gli Stati Uniti per laurearsi in informatica a New York un pochino preoccupata lo ero.
Come ogni madre. Ma per lui avrei fatto qualsiasi cosa. E quello di andare a studiare negli Stati Uniti era stato da sempre un suo sogno.
Mi chiamo Kadiatou Diallo sposata con Saikou. Guineani.
Amadou era nato il 2 settembre 1976 in Liberia. Avevo 16 anni e lui il mio primogenito. Avevamo una buona attività che ci permise di soddisfare il suo desiderio.
Dovevate vedere la sua felicità quando arrivò il passaporto.
“Grazie mille mamma, ti renderò fiera” mi disse prima di partire.
Arrivò a New York City che era il 1997.
So che il suo primo lavoro fu fare consegne in bicicletta. Poi aveva iniziato a fare il venditore ambulante vendendo guanti, calze e video.
Ricordo ancora quando mi chiamò il 31 gennaio 1999 da New York City.
“Sono così felice in questo momento, mamma! Mi sto per iscrivere al college".
Gli avevo chiesto se aveva bisogno del mio aiuto e lui mi aveva risposto: "No, ho solo bisogno delle tue preghiere".
Non avrei mai immaginato che quattro giorni dopo, il 4 febbraio 1999, il mio mondo, come lo conoscevo sarebbe cambiato per sempre, così come il mio ruolo di madre.
Capii il significato di parole come “ambulante” “immigrato” “africano”.
Fu un parente che si trovava a New York a chiamarmi.
Pensai subito che fosse successo qualcosa a mio figlio Amadou.
Stava bene? Era ammalato? Era forse in ospedale? Niente di tutto questo. Di peggio.
Piangendo mi disse che Amadou era stato ucciso.
La notizia mi sconvolse, ma ancora di più quando mi raccontò come era stato ucciso. Non poteva essere vero.
Dovevo sapere esattamente come erano andate le cose.
Per questo volai negli Stati Uniti.
Su tutti i giornali il nome di Amadou era associato al numero 41.
E il racconto.
Amadou stava rientrando a casa dopo una giornata di lavoro. Erano le 00:40 quando arrivò all’ingresso, al 157 di Wheeler Avenue, nella sezione Soundview del Bronx.
Nello stesso momento in cui quattro uomini scendevano da un’auto.
Sean Carroll, Richard Murphy, Edward McMellon, e Kenneth Boss. Questi i loro nomi. Agenti della “Street Crime Unit” unità anti-crimine in borghese con il compito di arrestare criminali armati dalle strade di New York.
Alla ricerca di uno stupratore seriale che viveva nella zona.
Fu quando mio figlio mise la mano nella tasca posteriore cercando di estrarre qualcosa che Sean Carroll urlò: “Pistola”. 41.
Quel numero era su tutti i giornali.
Il mumero dei colpi che avevano sparato.
19 andati a segno.
Mio figlio Amadou era morto sul colpo.
L’indagine successiva appurò che mio figlio non aveva nessuna pistola.
Lui non aveva mai avuto problemi con la legge.
L’unica cosa che giaceva accanto al suo corpo era un portafoglio.
La cosa che aveva provato ad estrarre dalla tasca.
Non riuscivo a comprendere come si potesse sparare 41 colpi contro uomo disarmato.
Me lo spiegarono.
La polizia americana non è preparata né addestrata per affrontare un nero innocente.
Se un nero mette una mano in tasca è solo per estrarre una pistola.
Era la politica che aveva portato avanti il sindaco Giuliani, "lo Sceriffo".
E loro si sentivano protetti. Sapevano di poter andare oltre senza pagare conseguenze. Sapevano di poter usare la razza, il colore o l’etnia per scatenare qualsiasi azione di polizia.
La morte di mio figlio scatenò numerose proteste nella città di New York.
Ma io non chiedevo vendette. Chiedevo giustizia, quella sì.
I quattro responsabili della morte di mio figlio erano stati incriminati.
Chiedevo solo giustizia, non vendetta.
Ricordo ogni parola del verdetto.
“Avete raggiunto il verdetto?”
“Si, Vostro Onore”.
“Risponda al cancelliere”.
“Riguardo all’imputato Kenneth Boss, qual è il verdetto per l’accusa di omicidio di secondo grado per il primo capo d’accusa?”
“Non colpevole”.
“Riguardo all’imputato Edward McMellon qual è il verdetto per l’accusa di omicidio di secondo grado per il primo capo d’accusa?”
“Non colpevole”.
E così via.
E poi per gli altri capi d’accusa…
“Qual è il verdetto sull’accusa di condotta negligente di primo grado per il terzo capo d’accusa”
Quel 25 febbraio 2000 Kadiatou Diallo, mamma di Amadou, non ha avuto giustizia. Tutti assolti. Dopo aver sparato 41 colpi ad un ragazzo disarmato di 23 anni.
Da allora la mamma è diventata “un simbolo della lotta contro l'abuso di potere della polizia”
Nell'aprile dello stesso anno la famiglia ha intentato una causa per omicidio colposo contro la città, chiedendo $ 61 milioni di danni, $ 20 milioni per dolore e sofferenza e $ 1 milione per ciascuno dei 41 proiettili sparati.
Ha ottenuto solo 3 milioni di dollari.
Una parte del denaro è stata utilizzata per creare la Fondazione Amadou Diallo e una parte per creare un fondo per borse di studi. Amadou Diallo è sepolto in Guinea.
A seguito di quella sparatoria, e dopo un'indagine federale, la “Street Crime Unit”,unità anti-crimine in borghese del dipartimento di polizia di New York, è stata sciolta.
Con il divieto di usare la razza, il colore o l’etnia per qualsiasi azione di polizia.
Bruce Springsteen ha composto la canzone "American Skin (41 Shots)" ispirandosi alla storia di Amadou.
Durante i suoi concerti è stato spesso contestato e boicottato dalla polizia locale e da simpatizzanti delle forze dell'ordine.
È la notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968.
La notte del capodanno vietnamita.
Tết Nguyên Ðán, comunemente noto come Tết. Quando i soldati americani erano partiti per il Vietnam era stato detto loro che sarebbe stata una passeggiata.
«Le speranze del nemico sono alla fine»
Questa frase l’aveva pronunciata il generale Westmoreland, comandante supremo del MACV (Military Assistance Command, Vietnam) nel novembre 1967, solo due mesi prima.
Ma stava per accadere qualcosa che muterà il corso del conflitto, e non solo dal punto di vista bellico.
Esattamente alle 3 del mattino del 31 gennaio 1968, l’Intelligence americana subirà il più grande smacco della sua storia.
Senza che gli americani ne avessero avuto il minimo sentore, la minima avvisaglia, quella notte il Vietnam scoppiò sotto i loro piedi.
Che la guerra non sarebbe durata pochi mesi, lo capimmo da subito.
Altro che passeggiata militare.
La fortuna per noi giornalisti è che in Vietnam gli americani ci consentivano totale libertà di movimento.
L’unico obbligo era quello di indossare uniformi americane.
Naturalmente senza simboli.
Per motivi di sicurezza, ci avevano detto.
Dove trovarle nuove di zecca?
Naturalmente al mercato nero, dove potevi comprare di tutto.
Altro che passeggiata militare.
Ricordo che una volta partecipai ad un’operazione di «search and destroy».
L’obiettivo era “cercare e distruggere” un gruppo di una trentina di viet cong nei pressi di un villaggio.
Ma l’amico Egisto Corradi lo aveva scritto con un titolo a sei colonne: «Gli americani in Vietnam combattono come se fossero sordi e ciechi».
In effetti come dargli torto.
Qual è stata, nella storia, la durata media di una guerra?
Una risposta non semplice.
Nel mondo antico e in quello medioevale ci sono state guerre di durata lunghissima.
Nel mondo moderno ci sono state anche guerre lampo, in tedesco Blitzkrieg.
Nel mondo antico sono diverse le guerre di una certa durata.
La Guerra del Peloponneso per esempio.
Venne combattuta in Grecia e nel Mediterraneo tra le due città rivali, Atene e Sparta e i loro alleati.
Durò all'incirca 27 anni, dal 431 a.C. al 404 a.C.
Le Guerre Puniche, che si sono combattute tra Roma e Cartagine per la supremazia del Mediterraneo, sono durate complessivamente circa quarantatré anni.
Ventitré la prima (dal 264 al 241 a.C.), diciassette la seconda (dal 218 al 201 a.C.) e tre la terza (dal 149 al 146 a.C.)
L’epigrafe sulla mia tomba mi definisce “gloria del genere umano”.
Non so.
Avete presente un bambino su una spiaggia che trova, prima una pietra variegata, poi una conchiglia a più colori dinanzi ad un oceano ancora inesplorato?
Ecco, penso di essere stato solo quel bambino.
Su quello che mi accadde nell’estate del 1666, nel giardino della mia casa natale di Woolsthorpe, Voltaire ed Eulero ci hanno ricamato sopra.
Una mela in testa, ma via.
In testa no di sicuro.
E quando mai.
Forse è il caso di raccontarvi un po’ della mia vita.
Dall’inizio.
Sono nato appunto a Woolsthorpe, nella Contea del Lincolnshire, il 25 dicembre del 1642.
Secondo il calendario giuliano.
Dieci giorni dopo, il il 4 gennaio 1643, secondo il calendario gregoriano.
Quello che forse non sapete, è che sono nato povero.
Molto povero.
E' il 26 giugno 1975.
Cristina sta per uscire di casa.
L'amico Marco è venuta a prenderla e con l'amica Emanuela hanno intenzione di andare in qualche locale a sentire un po' di musica.
Cristina, 18 anni, è figlia dell'imprenditore Mazzotti e abita in una villa a Eupilio (CO)
I tre amici hanno passato la serata in un bar di Erba.
Con la Mini Minor di Marco stanno per rientrare a casa.
Ridono, scherzano, quando all'improvviso una Fiat 125 taglia loro la strada.
Quattro uomini, col bavero alzato per nascondere la faccia, scendono dall'auto.
I 3 ragazzi vengono fatti salire sui sedili posteriori della Mini.
E partono.
A un tratto l'auto si ferma.
"Chi di voi è Cristina Mazzotti?"
"Sono io".
Le infilano un cappuccio in testa e la trasferiscono sulla 125.
Che ci faccio fuori dalla chiesa in Piazza Don Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma?
Non mi lasciano entrare in chiesa.
O meglio.
Non ci lasciano entrare in chiesa.
Come è possibile?
È possibile sì.
Forse è meglio che vi racconto quando, e come tutto è cominciato.
Non ero mai stata a Roma.
Erano gli anni 70 e da San Candido in Alto Adige ero venuta in gita con la parrocchia.
E poi quel pomeriggio, libero per tutti.
Io ero sola.
Nessuna amica, niente fidanzato, nessun familiare.
Andare da sola per Roma non fu una bella idea.
Perdersi fu un attimo.
Ricordo che fu lui ad avvicinarsi.
Gli chiesi come arrivare a Piazza Venezia.
Fu il mio accento a tradirmi.
Tedesca?”, mi chiese.
No”, risposi, “vengo dall’Alto Adige”.
“Ah, dove prendete in giro gli italiani!”.
La nostra storia d’amore iniziò quel giorno.