Mi ero sposata giovane, a 19 anni. Lui, un violento, mi picchiava spesso, mentre nell’Ohio lavoravo i campi e crescevo 11 figli. Mi chiamo Emma Rowena Gatewood e riuscii divorziare da quell’uomo violento solo nel 1940 malgrado le sue minacce di farmi rinchiudere in manicomio.
Avevo 67 anni in quel freddo giorno di aprile del 1955. Quando presi quella decisione.
Dissi ai miei figli, ormai adulti, che sarei andata a fare una passeggiata. Va bene, mi dissero. Mai immaginando cosa stavo per fare. Con pochi soldi in tasca e qualche indumento in uno zaino.
Io invece lo sapevo benissimo.
Avevo letto sul National Geographic un articolo che parlava del "Sentiero degli Appalachi". Lungo 3.510 chilometri si snodava fra 13 stati sulla costa orientale degli Stati Uniti.
Ecco quello che avevo deciso di fare. Percorrere quei 3.510 km.
Nessuna donna aveva mai completato quel percorso. Per me, abituata a camminare, sembrava invece una cosa semplice. Almeno da come era illustrato sulla rivista. Una tranquilla passeggiata con punti di ritrovo alla fine di ogni giornata.
Vi garantisco che non fu per niente facile.
Prima di tutto non fu una grande idea partire con ai piedi un paio di scarpe Converse.
Senza un sacco a pelo e senza una tenda poteva anche passare, ma non avevo nemmeno una mappa o una bussola.
Avevo nella borsa solo una coperta di lana, un impermeabile e una tenda da doccia.
In realtà avevo anche cerotti, forcine, acqua, coltellino, torcia, caramelle alla menta, penna, taccuino da 25 centesimi, würstel, uva, noccioline e latte in polvere.
Non fu tanto il ginocchio infermo a crearmi problemi.
E neppure il fatto che senza occhiali non vedevo niente.
La cosa più difficile fu salire il monte Katahdin, la vetta più elevata di tutto il percorso. Pensate. Mi sono pure persa. Eppure dovevo solo seguire i segni bianchi sul sentiero. E poi gli occhiali rotti, il cibo finito.
Fortunatamente ogni volta mi recuperavano i ranger.
Malgrado tutte queste disavventure, fui la prima donna a percorrere tutto l’Appalachian Trail in una stagione.
La quinta persona in assoluto.
Nessuno mi aveva avvisata di tutti i pericoli di quella camminata.
Per esempio i serpenti velenosi.
Anche se poi alla fine furono le zecche, le zanzare e insetti vari a darmi più fastidio. Incontrai anche un orso nero americano. Come sono riuscita a spaventarlo?
Quando hai avuto a che fare per una vita con una mandria di 11 figli e 23 nipoti che volete che sia un vecchio orso.
Diventai una celebrità e per tutti diventai Nonna Gatewood. Non mi fermai lì.
Rifeci il percorso nel 1960 e nel 1963, a 75 anni. L’unica a percorrere l’Appalachian Trail per tre volte. Di più.
Attraversai tutti gli stati lungo i 3200 chilometri anche dell’Oregon Trail. Perché?
Perché non importa quanti anni hai.
Quello che conta è la volontà, che va oltre l’età anagrafica. Quindi se avete un sogno, un desiderio, una cosa che vorreste fare, fatela. Per poter dire come me: “Ho detto che lo avrei fatto, e l’ho fatto”.
Ehi, che aspettate?
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Basta sfogliare l’Annuario Pontificio 2023, che include Papa Francesco, per sapere che ci sono stati 266 regni dei pontefici.
Se non l’avete letto vi confiderò un segreto.
Ci sono stati 266 regni dei pontefici, ma non ci sono stati 266 Papi.
Poffarbacco, e come mai?
Perché nell’elenco io compaio ufficialmente per ben tre volte, tutte riconosciute come valide.
Non solo.
Voi pensate che Benedetto XVI sia stato l’unico Papa a dimettersi.
Invece si dimisero anche Clemente I, Ponziano, Celestino, Gregorio XII e…il sottoscritto.
Non solo.
Lo sapevate che nel 1046, caso unico, quattro Papi occuparono contemporaneamente il trono di San Pietro?
Furono Silvestro III, Gregorio VI , Clemente II e…il sottoscritto.
Dimenticavo.
Sono Papa Benedetto IX, nato Teofilatto.
Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/4j4VsUB
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline.
Con quei bei cannoni tutti neri.
Il morale alto.
Pronto a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli".
Il primo sparo?
Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer.
Resistemmo fino all’impossibile.
Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata.
Un durissimo colpo
(Bragation morirà il 12 settembre)
“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino.
Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so.
Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli.
Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi.
Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta.
Con strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
Ieri Johannes ha dato voce ad Alexander Selkirk, il pirata la cui storia, secondo alcuni, è la stessa raccontata da me nel libro “Robinson Crusoe”.
(Leggete qui )
Non è così.
Per cui ritengo giusto portare alla vostra conoscenza la mia versione. bit.ly/4k5qo81
E’ vero, andai da Alexander per sentire dalla sua voce quella storia che girava ormai da anni.
I suoi quattro anni e quattro mesi passati sull’isola Juan Fernández.
Il mio Robinson è quindi Alexander Selkirk?
Una definizione avventata, e in quanto tale, assolutamente inesatta.
Come avrete capito mi chiamo Daniel Defoe.
E vi farò una confessione.
Dalla vicenda di Alexander, che avevo conosciuto attraverso gli scritti di Rogers e dello Steele, e approfondita durante l’incontro con lo stesso Alexander, ho preso solo lo spunto.
Nulla più.
Fui sicuramente uno dei primi a leggere quel romanzo, uscito esattamente il 25 aprile 1719.
E non potei fare a meno di rilevare un sacco di inesattezze.
Per me era chiaro.
Quello che lo aveva scritto non aveva mai vissuto ai tropici.
C’erano un sacco di errori e imprecisioni.
Come quel personaggio inseguito dai selvaggi che non sapeva nuotare.
Assurdo.
E cosa dire del protagonista che, in un’isola del Sudamerica, si era messo a costruire una palizzata per proteggersi dalle bestie feroci?
Altra assurdità.
E poi foche, pinguini, alle foci dell’Orinoco.
A quei tempi ero sottotenente sulla nave Weymouth della marina di S.M. britannica.
Non mi intendevo di cose letterarie, avevo letto si e no la Bibbia, ma in quel caso avevo diritto più di chiunque altro di esprimere la mia opinione.
Perché il protagonista di quel libro, ero io.
E' il 7 luglio 1929.
A Roma, allo Stadio Nazionale del PNF, si assegna il campionato di calcio, ultimo campionato a gironi.
Se lo contendono il Bologna e il Torino. 3-1 all’andata per il Bologna, 1-0 per il Torino al ritorno.
Niente differenza reti all’epoca.
E’ spareggio.
Sinceramente a me interessava poco quella partita.
Non fosse altro per i miei 10 anni.
Con i miei amichetti avevo deciso di andare all’Adda a fare il bagno.
Noi ragazzi poveri di Cassano d’Adda ci divertivamo così, malgrado fossimo a conoscenza della pericolosità del fiume.
Con noi portavamo sempre il “Ciapìn”, ferro di cavallo, un ragazzino di sei anni chiamato così perché portava fortuna.
Avevamo tutti un nomignolo.
Io ero il “Tulèn”, perché prendevo a calci tutto quel che trovavo per strada, pallone di stracci o barattoli di latta.