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Sep 28, 2020 17 tweets 6 min read Read on X
Oggi è il 16 marzo 2005. E sono stanca.
Ho nausea, vomito e diverse linee di febbre. Speriamo bene. E’ tutto il giorno che penso a lui, al dottor Matthew Lukwiya.
Non sono certo alla sua altezza.
Io sono solo pediatra presso l'ospedale di Uíge in Angola.
Invece nel 2000 il dottor Lukwiya era Dirigente Sanitario all’ Hospital Lacor, in Uganda. Quando la gente cominciò a morire per gravi emorragie interne, di una malattia misteriosa. E non era certo una bella cosa quell’usanza di lavare i morti.Contribuiva a diffondere la malattia
Fu lui a riconoscere la gravità della situazione e la facilità di trasmissione del virus.
Fu lui a ignorare le pratiche burocratiche e a far analizzare subito il sangue infetto.
Ebola, fu il risultato. E il suo impegno a isolare l’ospedale. A proteggere il personale medico.
I medici e gli infermieri avevano paura. Continuavano a morire, ma lui li esortava, sempre in prima fila. Fino a contagiarsi.
Fu la cento sessantaseiesima vittima di Ebola. Ricordo ancora quel 5 dicembre del 2000 e il dolore per la sua morte.
E' ricordando il lavoro del medico ugandese Matthew Lukwiya che il pensiero corre alla mia infanzia. Ne ho fatta di strada prima di arrivare qui in Africa. Ma era scritto. Era stata da sempre la mia vocazione.
Sono nata a Biella il 9 dicembre 1953.
Nel 1978 la laurea in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Torino e in seguito il diploma di Medicina Tropicale ad Anversa, nel 1984.
Intercalando mesi di volontariato in Africa. Presso l'Ospedale di Ikonda (Tanzania) come responsabile del reparto pediatrico
Ci tornavo spesso in Africa come volontaria. Due anni come responsabile del reparto di pediatria ed unità bambini malnutriti presso l'ospedale regionale di Tenkodogo in Burkina Faso.
Passando dall’ospedale regionale di Iringa in Tanzania ero arrivata al St. Mary Hospital Lacor.
L’ospedale dove aveva lavorato il dottor Matthew Lukwiya. E due anni fa sono arrivata qui, all’ospedale provinciale di Uíge in Angola. E' stato nell’ottobre del 2004 che ho denunciato la comparsa di quelle morti sospette. Con febbre emorragica.
Avevo inviato subito campioni ai tecnici del Ministero della Sanità nella capitale Luanda. Ma senza risposta. C’era voluta la morte di un’infermiera per svegliarli.
Solo il mese scorso mi hanno autorizzato ad aprire due locali di isolamento infettivo.
Poveri bambini. Ne sono già morti 90. Virus di Marburg lo chiamano. Simile all’Ebola. Mi dicono tutti di stare attenta. Ma Matthew Lukwiya diceva che “salvare vite è la nostra vocazione. Comporta dei rischi, ma se ami veramente il tuo lavoro il rischio non conta poi così tanto”.
Di più. ” Se io lasciassi in questo momento, non potrei più esercitare la professione medica nella mia vita. Non avrebbe più senso per me”. Aveva ragione, sapete. E’ così per tutti noi che amiamo questo lavoro.
“Se la mia morte fosse l’ultima non mi dispiacerebbe morire”.
Il 16 marzo 2005 Maria Bonino era stanca, con nausea, vomito e diverse linee di febbre . Aveva contratto il Virus di Marburg. Morirà il 24 marzo 2005 a Luanda all'età di 51 anni. Nella sua Africa, che tanto amava.
È sepolta in un cimitero angolano.
"Se morirò lasciatemi qui"
“Ho la febbre e mi sento tutta rotta. Speriamo che sia malaria. E se no…mi dispiace di morire, mi dispiace per me, per il dolore della mamma, della Cri, del Paolo, dei miei nipoti e dei miei cognati, delle persone che mi vogliono bene e a cui voglio bene.”
(Maria Bonino)
Maria Bonino ha lavorato anche al St. Mary Hospital Lacor. Dove lavorava il medico ugandese Matthew Lukwiya. Il St. Mary Hospital Lacor, fondato nel 1959 dai missionari comboniani, è stata gestito e sviluppato dal 1961 dai coniugi Piero Corti e dalla moglie, Lucille Teasdale.
Piero pediatra, e Lucille chirurgo, hanno continuato a lavorarci fino alla loro morte.
Lei nel 1996, dopo aver contratto l’AIDS durante un’operazione chirurgica.
Lui ci ha lasciato nel 2003.
E’ considerato il più grande ospedale senza scopo di lucro dell'Africa orientale.
Nel 2016/17 effettuati 34.600 ricoveri, e 149.649 prestazioni ambulatoriali.
I pazienti sono curati gratuitamente o a tariffe bassissime.
"Perché un ospedale deve offrire il miglior servizio possibile al maggior numero di persone al più basso costo possibile” (Piero Corti).
Grazie a @AvvDox per avermi suggerito di raccontare la storia di Maria Bonino, volontaria per quasi undici anni con “Medici per l’Africa Cuamm”.
Maria, che come tanti altri medici, non si è tirata indietro.
Morti, perché quella professione l'amavano più della loro stessa vita.

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Jun 2
Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema. Image
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni. Image
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali. Image
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May 31
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Read 25 tweets
May 30
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati. Image
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio. Image
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave. Image
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May 28
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara. Image
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate. Image
Read 24 tweets
May 26
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan. Image
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal. Image
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Read 10 tweets
May 15
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio Image
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato. Image
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