“S'ode a destra uno squillo di tromba. A sinistra risponde uno squillo”.
E’ così che il Manzoni descrive l’inizio della battaglia di Maclodio nel secondo atto de “Il Conte di Carmagnola”.
Questi versi li conoscete bene, lo so.
Ma quanti di voi conoscono nei particolari la battaglia di Maclodio, una delle più importanti vittorie di terra della Serenissima?
Tranquilli, siete perdonati. Sui libri di storia la battaglia non è descritta nei particolari.
Con la precisione necessaria.
Eppure qualcuno l’ha descritta esattamente, per averla vissuta.
In una lettera del gennaio del 1428 che potete trovare nell’archivio comunale di Vicenza (non so ora, ma nel 1981 era ancora lì).
Una lettera indirizzata all’amico e maestro Guarino Veronese.
Perché lo so? Perché so di quella lettera che permette di ricostruire con precisione la battaglia di Maclodio?
Perché sono stato io a scriverla.
Io, Gianbattista Bevilacqua, ufficiale della Cavalleria veneta.
Dovete sapere che il XV secolo era un continuo susseguirsi di guerre tra i cinque grandi stati della penisola.
La Repubblica di Venezia, Il Ducato di Milano, Lo Stato Pontificio, il Regno di Napoli e la Repubblica di Firenze.
Lunghe e logoranti guerre.
Nel 1427 era il Ducato di Milano a rendere instabile il quadro politico.
Dopo l’assassinio del fratello Giovanni Maria nel 1412, era stato Filippo Maria Visconti ad ereditare tutto.
E non aveva fatto altro che guerre.
Prima per recuperare quello che il fratello aveva perduto.
Poi per ingrandire ulteriormente il Ducato.
Ad aiutarlo un capitano di ventura.
Quando Milano si rivoltò per l'uccisione di Giovanni Maria Visconti era arrivato lui, tale Francesco Bussone, nato in Piemonte nel 1380.
Forse voi lo conoscete come “Il Carmagnola”.
Il Carmagnola partecipò all’assedio di Monza, di Brescia, Bergamo, Genova e Piacenza.
Ma passiamo oltre.
Al 12 ottobre 1427, alla battaglia di Maclodio tra l'esercito visconteo guidato da Carlo II Malatesta e quello della Repubblica di Venezia guidato proprio dal Carmagnola.
“Un attimo Johannes. Hai detto che il Carmagnola era al servizio dei Visconti. Che ci fa ora alla guida dei suoi nemici?”
I motivi sconosciuti.Una cosa è certa.
Filippo Maria Visconti era lunatico e paranoico.
Le ripetute umiliazione avevano costretto il Carmagnola all’esilio.
E il 23 febbraio 1425 si era ritrovato a Venezia. La sua fama di condottiero lo aveva portato ad essere nominato capitano generale dell’esercito di Terraferma.
Ma alla sua fama non ebbe seguito una condotta in battaglia degna del suo nome.
Con la Tregua di Venezia del 30 dicembre 1426 il Visconti era stato costretto a cedere Brescia ai veneziani. Nella primavera del 1427 l'esercito visconteo tornò ad occupare la città. Il Carmagnola, con un riuscito assedio, se la riprese. E proseguì verso i territori milanesi.
Una volta arrivato tra l’Oglio e l’Adda, non puntò nel cuore dello Stato nemico come voleva Venezia.
Anzi, si ritirò in territorio bresciano.
E venne raggiunto dall’esercito nemico. Caduta Montichiari, il Carmagnola conquistò facilmente Maclodio.
Ora la distanza tra i due eserciti era veramente pochissima.
Il 12 ottobre Carlo Malatesta giunse in vista di Maclodio.
Tralasciando il numero spesso discordante degli storici, diciamo che ogni esercito era composto da circa 20-25.000 uomini.
Tra fanti e cavalieri.
Essendo io, Bevilacqua, ufficiale della cavalleria veneta, vi posso dire esattamente come andò la battaglia.
Lo scontro avvenne sulla strada che collegava Maclodio a Urago.
Su un terreno paludoso da entrambi i lati.
Il Carmagnola ordinò 20 linee di 700 cavalieri e 250 fanti distanti, davanti ai cavalieri, tra loro cento passi.
L’esercito del Malatesta invece era stato diviso in due tronconi.
Uno sulla strada stessa, al comando di Piccinino, e uno verso Rovato.
Alle 16 la prima scaramuccia. E alcuni veneti fatti prigionieri. Non era niente, ma i soldati del Ducato di Milano cominciarono a provocare gli avversari.
Il Carmagnola, senza scomporsi, ordinò ai fanti di attaccare ottenendo di dividere il nemico, facendolo ripiegare verso sud.
Una volta divisi fu facile costringere il Piccinino alla fuga. Ora rimaneva l’altro ingente schieramento a nord di Rovato. Non fu difficile per le schiere del Carmagnola costringere, malgrado la resistenza di Francesco Sforza, il nemico alla fuga incalzato dalla cavalleria veneta
Fu un trionfo per il Carmagnola.
Per numero di prigionieri e bottino.
Pochi invece i morti da entrambe le parti.
Ma il Carmagnola a quel punto prese una decisione che scatenò le ire del Senato veneto.
Riuniti i prigionieri milanesi diede ordine di liberarli.
Il motivo?
Difficile dirlo. Tenete conto che quelle guerre erano combattute dalle compagnie di ventura. Veri professionisti, un giorno al servizio dell'uno, un giorno dell’altro.
Pagati profumatamente, avevano tutto l’interesse a liberare i prigionieri affinché le guerre non finissero mai.
Una sola cosa risulta però difficile da comprendere. Perché il Carmagnola dopo Maclodio non penetrò direttamente nel cuore del territorio nemico?
Mistero.
Comunque la guerra terminò con la pace di Ferrara del 19 aprile 1428.
Riprese tre anni dopo per terminare definitivamente con la pace di Ferrara del 26 aprile 1433.
E il Carmagnola? Un anno prima, precisamente il 5 maggio 1432, il vincitore di Maclodio era stato condannato a morte e giustiziato in Piazza San Marco.
Vediamo il perché.
La ripresa delle ostilità del 1431 aveva mostrato il Carmagnola sotto altra luce. Alcune decisioni sui campi di battaglia avevano fatto pensare al Senato veneto che il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, gli avesse offerto qualche signoria per tradire la Repubblica di Venezia
Il Senato, informato delle sue ininterrotte relazioni privilegiate con Filippo Maria Visconti, gli vietò di perseguire in tale direzione.
Il Carmagnola non ottemperò al divieto e l’accusa di tradimento venne discussa dal Consiglio dei Dieci.
Il doge Francesco Foscari propose il carcere a vita, ma la maggioranza votò per la pena di morte. Era colpevole?
Non lo sapremo mai. Tutte le carte del processo col quale il Consiglio dei Dieci condannò a morte il Carmagnola sono andate distrutte in un incendio.
Alla sua figura si è ispirato il Manzoni per "Il conte di Carmagnola", tragedia pubblicata nel 1820. Una cosa strana.
Francesco Bussone era detto sì "il Carmagnola", ma era conte di Castelnuovo Scrivia.
Mai stato conte di Carmagnola.
Una svista? O che altro?
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
Vi giuro, ho fatto quello che potevo.
E’ tutto registrato.
Il radiocronista Andrew West lo stava intervistando.
“Sono qui. Rafer ha afferrato l’uomo che ha sparato.
Prendigli la pistola. Il dito…il dito…prendi l’arma Rafer. Bravo, l’hai preso”.
L’ho preso, bloccato, è vero, ma troppo tardi.
Quel giorno di più non potevo fare.
E mi dispiace.
Da morire.
Non essere riuscito a salvargli la vita, intendo.
Un dispiacere che non ho mai dimenticato.
Mi chiamo Rafer Johnson e sono nato a Hillsboro, Texas, il 18 agosto 1934.
Papà voleva darci un futuro migliore di una baracca senza elettricità e impianto idraulico.
Per questo, all’età di nove anni, ci eravamo trasferiti con mio fratello Jim a Kingsburg, in California.
La storia ha inizio in una grande città dove i suoi 242.000 abitanti convivono con 20.000 immigrati italiani.
Convivere?
Parola grossa, perché i rapporti non sono certo dei migliori.
Gli italiani sono accusati dagli abitanti di accettare stipendi da fame rubando loro il lavoro.
A parte qualche centinaio di malavitosi (due le organizzazioni criminali “Mafia” e “Mano nera”) gli italiani fanno solitamente i lavori più umili e faticosi: braccianti agricoli, calzolai, minatori, lavoratori ferrovie, spazzini, stagnini.
Se sono fortunati venditori ambulanti.
Gli scontri sono all'ordine del giorno e i rapporti sempre tesi.
Gli immigrati non sono tutti cittadini modello, anzi.
Alcuni di loro hanno precedenti penali.
Altri, dopo essere sfuggiti a mandati di cattura in Italia, sono arrivati in città pronti a delinquere di nuovo.
Ogni volta è uno spasso.
Guardare Johannes che apre uno di quegli scatoloni che tiene custoditi gelosamente.
A volte un’etichetta ingiallita lo aiuta.
Il più delle volte nemmeno si ricorda di aver avuto certa roba.
E’ l’età, ma meglio evitare di dirglielo.
Che se mi sente chiamare “roba” le sue cose, rischio pelo e contropelo.
Rovistando in uno di questi scatoloni ha trovato un vecchio volumetto, regalo del suo vecchio maestro di chitarra. In gioventù.
Ha scoperto di me sfogliandolo.
Di me come fonte d’ispirazione, intendo.
Il volumetto ha per titolo “L’arte antica e moderna. Scelta di composizioni per pianoforte”.
E’ uno dei 21 volumetti credo, realizzati da Giovanni Ricordi a partire dal 1864.
Questo riporta solo una data, scritta a mano “1890-91”.
In quel 1988 la Corte dei Conti era stata chiara a commento del relativo contesto economico-finanziario.
«Si evidenziano margini sempre più ristretti e il crescente affanno di un’azione di rientro che tutt’ora rifugge dallo scontro diretto con i nodi strutturali»
«Non è più percorribile la strada dell’anticipo dei versamenti d’imposta, che in varie occasioni ha già portato a riprendere anticipi degli anticipi, che non di rado hanno scaricato effetti negativi sugli esercizi susseguenti.
Un parere globale negativo, insomma.
Inoltre.
La Corte insiste sul «mancato sfruttamento delle favorevoli condizioni dell’economia».
Il messaggio è rivolto a lui, che il 21 marzo 1988 ha ricevuto da Cossiga l’incarico di formare il nuovo governo.
E che il 13 aprile si è seduto dietro la scrivania di Palazzo Chigi.
È il 31 gennaio 1969.
Il luogo? Viareggio.
Ermanno Lavorini esce di casa alle due e mezza del pomeriggio sulla sua bicicletta rossa, nuova fiammante.
Ha dodici anni, un ragazzino lindo, "tenuto come una statuina di porcellana dai genitori".
Il papà si è fatto da solo.
Lavorando come un mulo, girando mercati di paesi e città.
Era stato anche a Milano, vendendo biancheria.
Aveva guadagnato bene.
Ora ha un bel negozio di stoffe nel centro di Viareggio e sopra ci ha costruito un palazzo.
Dove abita con la famiglia.
Stesso giorno - Ore 15.00.
La mamma allarmata comincia a chiamare in negozio la figlia Marinella.
Ore 18.00, un altro squillo.
Marinella risponde e lancia un urlo.
"Ermanno rientrerà dopo cena. Dica al suo babbo di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia".
E' il 23 giugno 1978.
Siamo a Seregno, via Ballerini, a pochi passi dal centro della città.
All’improvviso, sul lato della scuola elementare Umberto Primo, un boato.
Un’esplosione e tante fiamme.
E poi fumo, tanto fumo.
E urla, tante urla.
Un giovane è avvolto dalle fiamme, mentre i suoi due compagni a terra si lamentano, colpiti dai frammenti del recipiente metallico che conteneva l'esplosivo.
Vengono caricati e portati al centro grandi ustionati del Niguarda.
Chi sono i tre ragazzi?
I giovani sono tutti di Seregno.
Il più grave è Rossano Barbiere 15 anni.
Gli altri due sono Roberto Cocozza, 17 anni e Roberto Girondi, 17 anni.
Sono riusciti solo per un attimo a dire che avevano visto per strada un involucro.
Incuriositi si erano avvicinati.
Poi l'esplosione