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Aug 25, 2021 25 tweets 8 min read Read on X
«Troppo piccola» mi dissero.
«Non possiedi i giusti parametri fisici per giocare ad alto livello. Per questo non potrai mai giocare in Nazionale.» Io non capivo. Amavo quello sport. Avevo cominciato a giocarci a dieci anni e già a tredici avevo esordito nel campionato nazionale.
L’inizio dell’ultima storia di “Non esistono piccoli campioni”, quella sulla cubana Mireya Luis, sembra la storia della mia vita, Johannes.Troppo piccolo.Da non poter giocare nell’NBA. Eppure io amavo e amo giocare a basket. Forse è il caso di raccontare la mia storia dall’inizio
Papà era un appassionato di Basket NBA.
Vecchio tifoso dei Lakers, dopo che io ero nato, il 7 febbraio 1989, aveva fatto una scommessa con un amico durante le Finals di quell’anno.
I LA Lakers contro i “cattivi ragazzi”, come venivano chiamati i Detroit Pistons.
Se i rivali dei Pistons avessero vinto, lui avrebbe chiamato suo figlio come il playmaker degli odiati rivali. Finì 4-0 per i Pistons.
E così era andato all’anagrafe e mi aveva registrato come Isaiah, Isaiah Thomas.
Fu mamma a rimediare aggiungendo una lettera.
Vi spiego.
Non so, forse è solo una leggenda, dato che ero già nato da qualche mese.
Comunque.
Lui è Isiah Thomas. Il leader di tutti i tempi dei Pistons per punti, assist, palle rubate e partite giocate.
Solo 185 centimetri, ma sicuramente uno dei più grandi playmaker di sempre.
Questo invece sono io, Isaiah Thomas.
Non Isiah, ma Isaiah, con una “a” in più grazie a mamma.
E molti meno punti, assist, palle rubate e partite giocate rispetto a lui.
Però con un piccolo record pure io. Sono alto infatti solo 175 centimetri.
Forse anche meno.
Dicono che sei vuoi eccellere, se vuoi farti le ossa, devi partire dal basso.
Per me non fu difficile, anzi.
Più basso di così nell’NBA si erano visti ben pochi giocatori.
Normale, se vuoi giocare contro gente che ti sovrasta di almeno 30 centimetri.
Ma amavo il basket, anche se tutti mi prendevano in giro per la mia altezza.
Io a basket volevo giocare a tutti i costi.
Fu così che continuando a ripetere che ero basso, cominciarono a chiamarmi anche “testone”.
Basso e testone. Un bel mix.
Ero nato a Tacoma e l'Università del Washington fu una scelta naturale.
Fu lì che incontrai Nate Robinson, stella del basket. Una stella che riuscivo a guardare senza alzare gli occhi, visto che anche lui era alto come me, 175 centimetri.
Solo che lui, cosa non da poco, aveva un’elevazione di 112 centimetri. E questo lo aiutava. E non poco.
Con la sua benedizione presi il suo vecchio numero, il due.
Nella Prima partita in amichevole misi a segno 27 punti.
Un buon inizio.
Al college rimasi tre anni.
Con una media di 16,4 punti, 3,5 rimbalzi, 4,0 assist e 1,2 palle recuperate.
Una discreta media per un piccolino. Seppur testone. Ritenni di essere pronto al grande salto.
Il Draft NBA 2011, la mia grande occasione.
Com’è quella storia che sei vuoi eccellere, se vuoi farti le ossa, devi partire dal basso?
Le scelte si susseguivano e il mio nome non veniva pronunciato.
Decima, ventesima, trentesima, cinquantesima scelta. Poi finalmente il mio nome, alla sessantesima. L’ultima.
Più in basso di così.
Furono i Sacramento Kings a chiamarmi, quando ormai non ci speravo più. Troppo basso, la solita storia.
Uno scoglio insormontabile per le squadre NBA.
Ma quella squadra aveva creduto in me.
Dovevo ripagarla.
E cosi feci. Non era mai successo nella storia della NBA che un giocatore scelto come ultimo nel draft ricevesse il premio come miglior matricola per due mesi di fila nella Western Conference.
Conclusi il primo anno con 11.5 punti di media, 14 il secondo, e oltre i 20 il terzo
Niente male per uno scricciolo come me.
A Sacramento i tifosi mi adoravano, ma nel 2014 venni ceduto ai Phoenix Suns.
Le prime quattro partite sopra i 20 punti e poi il primo di una serie di infortuni.
E così nel 2015 venni ceduto ai Boston Celtics.
Nella prima stagione feci incetta di premi.
Giocatore della settimana, giocatore del mese, secondo nelle votazioni per il Sixth Man Of The Year Award.
Iniziai meglio la mia seconda stagione nei Boston Celtics.
Nelle prime 21 partite andai oltre i 20 punti per 20 volte.
Inclusi i 36 punti dopo un intervallo e un record in carriera di 52 punti.
In lizza per il premio di miglior giocatore dell’anno.
E poi quel maledetto 15 aprile 2017.
Prima dell’inizio della prima partita dei playoff contro i Bulls mi arrivò la notizia della morte di Chyna.
Chyna, la mia sorellina, era morta in un incidente stradale.
Piangevo, non volevo giocare, ma Chyna non avrebbe voluto quello.
Scesi in campo con il cuore a pezzi.
33 punti in gara uno. E poi il 2 maggio.
Un giorno speciale.
Sarebbe stato il compleanno di Chyna.
Non avrei mai potuto mancare a quella partita. Qualche giorno prima, in gara uno, una gomitata mi aveva letteralmente spaccato e lanciato lontano un dente.
Mi feci operare il giorno stesso.
Per poter rientrare in campo quel 2 maggio.
Avevo una faccia gonfia come un melone e due labbroni che non vi dico. La mia sorellina avrebbe compiuto ventitré anni quel giorno. Realizzai 53 punti, primo nella storia dei Celtics ad aver superato quota 50 sia in regular season che nei playoff. Il mio modo per sentirla vicina
Ero un eroe in quel momento, amato da tutti. E poi. Quando pensavo di essere arrivato, di aver ormai convinto tutti malgrado la mia altezza, tutto andò in mille pezzi.
Un continuo rimbalzare di squadra in squadra.
L’anno scorso solo tre partite.
Nessuno mi vuole più.
Forse per la convinzione, sbagliata, che 175 centimetri sono troppo pochi per poter vincere.
Sono basso è vero, ma ci ho messo sempre l’anima. Durante una partita giocata contro Huston il vostro Flavio Tranquillo parlò di resilienza.
Disse che “la resilienza “è” Isaiah Thomas”.
Non so. So per certo di essere un testone, quello sì.
Mi sono sempre allenato con la speranza di poter tornare a giocare nella NBA.
Per questo ho partecipato al torneo organizzato dal mio amico Crawford.
Gli 81 punti segnati poco tempo fa non sono passati inosservati.
E nemmeno il mio pianto negli spogliatoi.
“Non vi ho mostrato le mie emozioni perché possiate provare pena per me. Diavolo, proprio no!!! La mia vita è BELLISSIMA!! Vi ho mostrato quelle lacrime solo per farvi capire cosa si prova quando si dà tutto per qualcosa che si ama”.
Nessuno lo vuole. Una favola a lieto fine vorrebbe che a Isaiah fosse data una nuova opportunità.
Perché non importa quanto sei alto e quanto alto è l’avversario o l’ostacolo che hai davanti.
Quello che conta è provare sempre a superarlo. Sempre. Come faceva Isaiah Thomas

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Jul 22
Se ho mai sentito la frase:"E' roba da uomini?"
Hai voglia.
Sono cose che dicono da sempre a noi donne.
Sei donna?
Mica puoi fare questo!
Mica puoi fare quello!
Non puoi certo avere il coraggio di guidare un'auto da corsa e battere i maschi!
Ricordo che era il 1962.
Ero una dei piloti di rally di maggior successo. Svedese.
Probabilmente non sarei mai andata a quella corsa in Argentina, una delle più dure al mondo.
Poi cosa mi vengono a dire?
Che non sarei mai stata capace di finire quella corsa. Figuriamoci vincere.
Ora.
So benissimo come siamo considerate noi donne quando si tratta di motori.
So anche che se chiedi ad una bambina cosa vuole fare da grande difficilmente risponderà “pilota di auto”.
Lo so.
Quello che voi forse non sapete, è questo.
Non bisogna mai sfidare una donna.
Mai.
Read 17 tweets
Jul 19
“Pilotino” mi chiamavano.
Rispetto ad oggi altro che pilotino.
Provate a farli correre con la Maserati dei miei tempi. Con quel volante che mi stampava una mezza smorfia ogni volta che lo dovevo girare, con il cambio in mezzo alle gambe e con l’acceleratore e freno invertiti.
Come sono arrivata, una contessa che abitava nel Palazzo Bianco di Merigliano e con un papà ingegnere che aveva elettrificato l’irrigazione in Campania, su un circuito?
Sinceramente non lo so.
Io amavo i cavalli.
Erano i miei fratelli che amavano correre.
Sono nata a Napoli l’11 novembre 1926.
E proprio grazie alla passione di due dei miei quattro fratelli, vinsi proprio in provincia di Salerno la mia prima gara.
Era il 1948 e su una Fiat Topolino 500 vinsi la 10 Km di Cava de' Tirreni.
E tutto per una loro scommessa Image
Read 16 tweets
Jul 17
Cosa abbiamo i comune noi quattro?
Quelli della foto intendo.
Due cose.
La prima.
Siamo quattro pionieri della cardiologia interventistica.
Nella foto siamo all’Università di Zurigo nell’agosto del 1980.
Ricordo che era un meeting sull’angioplastica. Image
Mason Sones (a destra) fu quello che eseguì la prima arteriografia coronarica il 30 ottobre del 1958. Possiamo dire in un modo del tutto casuale.
Quando accidentalmente il mezzo di contrasto finì all’interno della coronarica di destra. Image
Malgrado ciò il cuore non andò in fibrillazione.
Da quell’esperienza Sones comprese che piccole quantità di mezzo di contrasto non erano mortali per i pazienti.
Ciò avrebbe permesso di studiare meglio l’albero vascolare cardiaco.
Image
Image
Read 16 tweets
Jul 12
Perché non ho mai vinto le Olimpiadi?
Bella domanda.
So solo che ad ogni partecipazione era sempre la solita storia: “non corrisponde agli schemi tradizionali”.
Mi chiedo, ma quale progresso puoi ottenere seguendo solo schemi tradizionali, facendo sempre le stesse cose?
Se parliamo di sport.
Dick Fosbury ha seguito uno schema tradizionale?
Ulrich Salchow, svedese, primo campione Olimpico nel 1908, ha seguito uno schema tradizionale facendo il primo salto Salchow nel 1909?
Ma per piacere.
Chi sono?
Sono Surya Bonaly.
E questa è la mia storia.
Image
Image
Sono nata sull’isola della Riunione, un'isola dell'oceano Indiano occidentale
A 18 mesi sono stata adottata da una coppia di Nizza. Fu mia madre ad insegnarmi a pattinare.
Ma praticai anche ginnastica artistica a livello agonistico.
Fu quello che mi aiutò ad entrare nella storia
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Jul 10
Sto morendo dissanguata.
Sento il sangue scorrere accanto a me mentre ripenso a quello che è stata la mia vita nei palazzi dorati.
Mai immaginato di poter finire in questo posto.
Ma dopo essere passata per il campo di smistamento a Bolzano mi avevano portata qui, vicino a Weimar
Ricordo l’entrata, e quel cancello con la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”.
Non sapevo cosa volesse dire, ma non mi ci volle molto per capirlo.
Significava essere arrivati all’inferno: l’inferno del campo di concentramento di Buchenwald. Image
Era il 18 ottobre del 1943.

Il mio nome è Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana, principessa d’Italia, Etiopia e d’Albania, figlia di Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro. Sposata col principe tedesco Filippo Langravio d'Assia-Kassel.
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Jul 8
Inverno 1944 – Mi chiamo Sara e ho tredici anni.
Tre anni fa vivevo in Lituania con tutta la mia famiglia, poi erano arrivati i tedeschi.
Mio padre e mio fratello erano stati rinchiusi nella "Fortezza numero sette".
So che sono stati uccisi, con altre centinaia di ebrei.
Ero stata separata da mamma e da mia sorella.
Loro portate altrove, non so dove.
Io, a soli 10 anni, rinchiusa in un campo per bambini.
Per ben tre anni.
“Avevo perso totalmente la nozione del tempo, non sapevo più che giorno fosse, notavo soltanto il cambiamento delle stagioni”
Era un giorno d’inverno quando i tedeschi radunarono noi bambini per caricarci su dei carri bestiame.
Fu un viaggio lungo.
Quando il treno arrivò faceva freddo.
Fa sempre molto freddo d’inverno ad Auschwitz.
Mi chiamo Sara e come detto ho tredici anni.
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