"Le leggi razziali? Applicate all'acqua di rose".
L'acqua di rose è un'essenza. Tra le sue caratteristiche la delicatezza.
Dicono anche che aiuti a contrastare le rughe e gli altri segni dell’invecchiamento.
Effettivamente per me fu impossibile.
Invecchiare, intendo.
Era il 17 settembre del 1944, quando con i miei compagni fummo sorpresi e circondati da circa 30 tedeschi e 120 fascisti.
Uno scontro impari.
Dino Degani, 18 anni di Negrar, figlio di un'importante famiglia monarchica e antifascista era con me.
Lui e gli altri mi urlarono di scappare.
Replicai: "Vuialtri g'avì voia de schersàr" e poi uscii allo scoperto col moschetto in mano.
Che ci facevo in quella baita sul monte Comun, situato tra la Valpolicella e la valle di Stallavena?
Mi chiamo Rita Rosani e la mia storia inizia a Trieste il 20 novembre del 1920.
Quando sono nata.
Papà Ludovico e mamma Rosa erano ebrei, provenienti dalla Cecoslovacchia.
Il cognome era stato italianizzato da Rosenzweig a Rosani.
A diciotto anni iniziai a frequentare l’Istituto Magistrale Giosuè Carducci.
Sono in prima fila, la terza ragazza da destra.
Ma arrivò il 1938 e le leggi razziali "all'acqua di rose" mi costrinsero ad abbandonare la scuola.
Qui mi vedete con alcune delle mie amiche sul lungomare di Trieste.
Sono la seconda da destra.
Come vedete una ragazza come tante.
Amavo stare con le amiche e passeggiare con loro.
Dopo aver ottenuto il diploma in una scuola ebraica, cominciai a insegnare ai bambini ebrei.
Fu allora che arrestarono il mio fidanzato, Giacomo Nagler, ebreo polacco, internato nel campo di concentramento di Ferramonti in Calabria.
Ci scambiavamo lettere, anche se la censura tagliava in alcuni punti le sue.
La lontananza fu la causa.
Nel senso che ci lasciammo.
Venni a sapere che Giacomo nel novembre del 43 fu catturato dai tedeschi e portato ad Auschwitz.
E lì ucciso.
Dopo l’8 settembre fummo costretti a fuggire da Trieste e trovammo rifugio a Lignano.
Fu lì che conobbi Umberto Ricca capo della “Banda armata dell’Aquila”, Divisione partigiana Pasubio, attiva proprio qui da noi in Valpolicella.
E mi innamorai di lui.
E così mi unii a lui.
Facendo molte volte la staffetta, portando messaggi, armi o rifornimenti.
Avevo anche imparato a usarle le armi.
Avevamo come base una baita sul monte Comun.
Già proprio quella baita, dove fummo sorpresi.
Sì, proprio quella, dove dissi ai miei compagni che mi invitavano a scappare: "Vuialtri g'avì voia de schersàr" per poi uscire allo scoperto col moschetto in mano.
Ecco. Fu così che venni ferita e catturata.
Ferita, ripensai a quelle passeggiate con le amiche.
Ai mie genitori, al mio amore, ai miei compagni.
Alla bellezza della vita.
Ma per poco.
Un sottotenente repubblichino mi uccise con un colpo di pistola alla testa.
Dopo avermi ucciso, un altro fascista gli fece questa domanda.
"E adesso come farà, signor tenente, ora che ha ucciso una donna?"
Lui rispose secco: "Non era una donna, era un bandito".
C’era anche Umberto al mio funerale.
Avevo solo 23 anni, mai pentita di aver combattuto il fascismo.
Oggi voi potete essere qui, liberi.
Liberi in un Paese libero.
Liberi di sorridere alla vita.
Impossibile spiegare cosa furono quegli anni per noi giovani ebrei.
Ghettizzati, espulsi dalle scuole, divisi dagli amici e dalle amiche di sempre a causa delle leggi razziali.
Altro che acqua di rose.
Io non ero un bandito.
Vi assicuro, non ero un bandito.
Il primo provvedimento legislativo razziale assunto dal regime fascista fu il RD-L 4 settembre 1938, n. 1381-
"Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri".
Vietava loro di poter fissare dimora in Italia.
A quelli già presenti sei mesi di tempo per lasciare il Paese.
Seguirà il RD-L 17/11/1938, n. 1728 con i provvedimenti per la difesa della razza italiana.
Al Congresso di Verona del Partito Fascista (14-16 novembre 1943 al punto 7.
"Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica".
Mi chiamo Rita Rosani e vi ho raccontato la mia storia.
Vi giuro che non c'era niente all'acqua di rose in quei giorni. Niente.
Ma so, sappiamo, dove volete arrivare con certe affermazioni.
Vi dico.
Non ci provate.
Loro erano i carnefici, noi le vittime.
Ripeto. Non ci provate.
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Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema.
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni.
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali.
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.