"Le leggi razziali? Applicate all'acqua di rose".
L'acqua di rose è un'essenza. Delicata.
Il fosfuro di zinco invece è un composto chimico inorganico.
Ingerito, a contatto con i succhi gastrici, produce fosfina (fosfano).
Altamente tossico.
La conobbi nel 1913.
Era iscritta alla facoltà di Matematica dell’Università di Ferrara e poi si era trasferita a Firenze per frequentare i corsi di Zoologia e Botanica della facoltà di Medicina.
La conobbi lì e dopo una breve frequentazione ci fidanzammo.
Lei, la mia Enrica.
Era nata a Ferrara il 10 novembre 1891, ultima di quattro figli.
Ero con lei quando si laureò in Scienze naturali il 1º luglio 1914 con una tesi «Sul comportamento del condrioma nel pancreas e nelle ghiandole salivari del riccio durante il letargo invernale e l’attività estiva».
Col massimo dei voti. E non avevo dubbi, visto che prima di laurearsi era già stata assunta come assistente presso il gabinetto di Zoologia e Anatomia dell’Università di Firenze.
Quando nel 1924 le venne conferito il diploma di abilitazione alla docenza, io non stavo più con lei.
Ci eravamo separati nel 1915, ma non per colpa mia. Mi ero laureato anch’io nel 1914 a Firenze e avevo partecipato, come geologo e geografo, alla spedizione in Terra del Fuoco organizzata da Alberto Maria de Agostini.
Mi chiamo Giovanni Battista De Gasperi.
Che accadde dopo?
Io ero di Udine, e dopo la laurea ero stato nominato docente nel gabinetto di Geologia e Geografia fisica dell’Istituto di Studi Superiori e di Perfezionamento di Firenze.
Con Enrica passammo giorni stupendi incontrando geologi, naturalisti, antropologi.
Ma ero anche ufficiale degli Alpini e la guerra mi chiamò al fronte.
Ricordo che le scrissi una lettera: «È brutta la guerra, ma insieme a tante brutalità… fa emergere anche bei sentimenti».
Nel maggio del 1916 capii il significato di “inutile strage”.
Lei non venne al mio funerale e a nessuna delle commemorazioni in mio onore.
Ma aveva bisogno di alleviare il proprio dolore.
Per questo si arruolò come crocerossina negli ospedali da campo.
Per concentrarsi sul dolore altrui, quello degli uomini mutilati.
Era molto colta.
Pensate, pubblicava in inglese e conosceva sia il francese che il tedesco, collaborando con il Museo Giacomo Doria di Genova, l’Enciclopedia italiana Treccani e l’Università di Berlino.
La scienza era per lei, profondamente antifascista, l’antidoto al regime.
Nel dicembre del 1932 Enrica lasciò il proprio ruolo di assistente per “cattive condizioni di salute”.
Non era vero.
Il suo posto era ambito dal conte Lodovico Di Caporiacco, fascista convinto della prima ora.
In realtà fu costretta ad andarsene.
Fece altri lavori fino al 1937, quando la chiamarono come direttrice dell’Istituto di Entomologia agraria.
Di mattina insegnava al liceo ginnasio “Galileo Galilei”, come docente di scienze naturali.
Margherita Hack fu una delle sue allieve.
E poi le leggi razziali.
E “la morte civile”, perché la mia Enrica era ebrea.
In un attimo dichiarata «decaduta dall’abilitazione di libera docenza», cacciata dall’università di Pisa, dal liceo fiorentino, persino dalla Società entomologica. Basta ricerca, basta insegnamento.
Nella comunità ebraica di Firenze alcuni insegnanti, tra cui Enrica, decisero di tenere in piedi la scuola media ebraica.
E poi arrivò la guerra, vissuta tra Firenze e Gallo Bolognese. Enrica poteva fuggire in Svizzera, sapete? Ma non lo fece. Per non abbandonare i suoi studenti
E così, dopo l’8 settembre 1943, bussarono alla sua porta.
Dimenticata dagli ambienti che aveva frequentato, dimenticata dalle scuole, dagli atenei, dalle associazioni per la ricerca, arrestata e trasferita nell’ex convento di Santa Verdiana, diventato un carcere.
Lei lo sapeva quello che le sarebbe accaduto.
Tempo qualche giorno e l’avrebbero caricata su un treno, ammassata come carne al macello con destinazione Auschwitz.
Per questo aveva portato con sé qualcosa che l’avrebbe “salvata” da quel destino atroce.
Una fiala di fosfuro di zinco, usato per uccidere i topi. Non so perché la mia Enrica ingerì, il 18 gennaio 1944, proprio quel veleno.
Non lo so. Sinceramente, non lo so.
Furono due giorni di agonia tra atroci tormenti, prima di morire il 20 gennaio 1944.
Enrica Calabresi, scienziata di grande talento, non fu deportata e quindi è rimasta esclusa da tutti gli elenchi delle vittime e da qualsiasi libro della memoria.
«Noi siamo ciò che sappiamo di noi stessi, delle strade che calpestiamo, della terra in cui viviamo».
21 novembre 2019.
La Città di Roma cancella dalla sua toponomastica i nomi di due firmatari del Manifesto della razza, a cui erano precedentemente intitolate tre strade.
Una di queste strade è stata proprio intitolata a Enrica Calabresi.
Una settimana dopo.
"All'acqua di rose"
“Finiremo tutti colpevoli per non aver capito che i mali grandi e irrimediabili dipendono dall’indulgenza verso i mali ancora piccoli e rimediabili”. (Vittorio Foa)
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Non potevo certo restare senza far niente.
Sono entrata alla Marian Hall, casa per anziani in Pennsylvania, nel dicembre del 1983.
Esattamente due anni fa.
Ed ho subito pensato a come rendermi utile.
I miei quasi settant’anni non erano certo un impedimento o un freno.
Anzi.
E così, tramite le mie conoscenze, mi ero procurata un personal computer, un Apple IIe.
Era uscito nel gennaio dello stesso anno, terzo modello della serie Apple II.
La “e” stava per enhanced (migliorato).
Includeva alcune funzionalità che gli utenti di Apple II avevano avuto solo come opzioni a pagamento.
Un numero impressionante di slot di espansione, una visualizzazione di 80 colonne di testo, 64 KB di RAM (espandibile fino a 128 KB) e, per la prima volta, le lettere minuscole.
Che ci faccio su un carro insieme ad altri condannati mentre attraverso Milano tra due ali di folla urlante?
Una lunga storia che viene da lontano.
Tra poco tutto sarà finito, ma prima devo raccogliere le forze necessarie per raccontarvi l’assurdità della mia condanna.
Ricordo che quel 21 giugno 1630 era venerdì.
E come ogni mattina ero uscito per fare uno dei soliti giri d’ispezione.
Come Commissario della Sanità del Ducato di Milano era mio compito controllare e prendere appunti sui tanti edifici rimasti ormai vuoti a causa della peste.
Barba lunga e vestito in modo trasandato camminavo lungo la strada della Vetra de’ Cittadini nel rione di Porta Ticinese.
Dato che pioveva procedevo rasente ai muri.
Dopo aver passato sotto un “corritore” (quei piccoli cavalcavia che uniscono due palazzi) indugiai un attimo.
Settembre 1940.
Le truppe italiane, al comando del generale Graziani, decidono di attaccare gli inglesi in Egitto.
Obiettivo Sidi el Barrani.
Ma come si era arrivati a questo punto?
Perché Mussolini prese questa decisione e come andò a finire la conquista di Sidi el Barrani?
Mettetevi comodi, perché quella che vi sto per raccontare è una storia incredibile, che non troverete sui libri di storia.
Tutto ebbe inizio quando Mussolini, con la Gran Bretagna sottoposta all'offensiva aerea tedesca, pensò che la fine della guerra fosse imminente.
Chiamò Graziani in Libia e lo invitò ad avanzare in Egitto contro gli inglesi.
Con quali obiettivi?
Qualsiasi cosa, basta dimostrare di aver combattuto gli inglesi prima che vengano aperte le trattative di pace.
Combattere gli inglesi da qualche parte.
Facciamo a Sidi el Barrani.
Vabbè, un po’ di ragione l’avevano.
Quelli che mi dicevano che forse era meglio per tutti se non avessi guidato quel mostro.
Dovevate vedermi alla guida.
Con i miei cappelli di Parigi, abiti blu con sfumature di vetro colorato e scarpe Buster Brown.
Un vero figurino.
L’unica cosa che ignoravo era quale pedale schiacciare.
E io per sicurezza li schiacciavo tutti.
Quando volevo fare una cosa nessuno riusciva a dissuadermi.
Nemmeno quando decisi di attraversare l’oceano per andare in Europa.
Lo stesso anno dell’affondamento del Titanic.
Ma io ero decisa a lavorare con lui, il professor Leonor Michaelis, noto biochimico tedesco.
Margaret Rossiter lo descriverà solo nel 1993.
Io, come tante altre donne, lo avevamo già provato sulla nostra pelle l’effetto da lei descritto.
L’effetto Matilda, intendo.
La fate facile voi.
Nel giudicare le donne, intendo.
Io, nata nel 1900, ho visto e vissuto gli anni dopo la guerra.
Il Trattato di Versailles non fu una trattativa tra vincitori e vinti, ma una vera punizione per noi tedeschi.
Con quegli assurdi risarcimenti.
L’inflazione schizzò alle stelle.
E per il marco fu un attimo diventare carta straccia. Per comprare anche solo un tozzo di pane si andava con un cesto di marchi.
Lavoratori pagati con sacchi di soldi che perdevano valore da un giorno all’altro.
Fummo costretti al baratto.
Poi quando piano piano si stava invertendo la tendenza arrivò il crollo della borsa di New York del 1929.
E fu di nuovo la stessa miseria e disoccupazione del 1919.
Con sei milioni di disoccupati che dovevamo fare?
Disoccupata che dovevo fare?
Perché questa domanda stupida Johannes?
Mi chiedi se un secolo fa, quando venni al mondo, le donne erano più propense a materie di accudimento?
Guarda che le donne hanno, fin dall’antichità, contribuito in modo significativo allo sviluppo scientifico.
Certo, abbiamo dovuto superare ostacoli e barriere importanti e molte donne non hanno visto riconosciuto il proprio lavoro.
Per esempio, quando pubblicavano il loro lavoro su riviste scientifiche, incredibilmente il loro nome spariva e al posto compariva quello di un maschietto.
È successo anche a me.
Quando feci quella scoperta.
Ricordo che più ne parlavo più loro mi prendevano in giro.
Molti anni prima, nel 1858, Antonio Snider-Pellegrini lo aveva ipotizzato trovando fossili di piante praticamente identici sia in Europa che negli Stati Uniti.