Un dilettante.
Eppure avete avuto nei confronti della sua vicenda parole di ammirazione.
“Bellissima storia”, “storia geniale”, “carinissima storia”, “fantastica storia”.
Della mia di vicenda, vi garantisco, è stato detto ben altro.
Non ricordo nessuna ammirazione. Anzi.
Va bene, prendo atto, ma per quanto mi riguarda vi garantisco di non avere nessuna colpa per quello che è avvenuto durante la mia vita lavorativa.
Mi ritengo solo fortunata, quello sì.
Una fortuna iniziata fin dalla nascita.
Nella pampa argentina, nei pressi di Bahia Blanca.
Dove sono nata il 2 ottobre 1887, prima di nove figli. Mi chiamo Violet Constance Jessop.
I miei genitori venivano dall’Irlanda.
Ero ancora piccola quando la mia vita venne segnata da due disgrazie: la tubercolosi e la morte di mio padre, un allevatore di pecore.
I medici mi diedero per spacciata, ma ebbi fortuna, riuscii a guarire.
Per poter tirare avanti senza l’apporto di papà, ritornammo in Inghilterra.
Quando anche mamma si ammalò fui costretta ad abbandonare la scuola per cercarmi un lavoro.
Ero brava come cameriera, e a ventun anni cominciai a lavorare come “cameriera di cabina” presso la Royal Mail Line.
Paga pessima e turni massacranti, ma fu grazie a quel lavoro che tre anni dopo venni assunta dalla White Star Line, la più famosa compagnia navale britannica.
Il mio primo incarico? Sul transatlantico Olympic. Attraversare l’oceano non mi entusiasmava, ma avevo bisogno di quell’impiego.
Fu così che il 20 settembre 1911 salpammo da Southampton con destinazione New York. Andavamo spediti quando all’altezza dell’Isola di White, il botto.
L’incrociatore HMS Hawke virò a sinistra.
Le nostre 46mila tonnellate accartocciarono la prua dello Hawke (di 8mila tonnellate) distruggendola completamente, ma anche noi riportammo danni seri. Uno squarcio sulla fiancata tale da allagare due compartimenti. In più l’elica rotta.
Fummo costretti a tornare nei cantieri di Belfast per le riparazioni.
Ormeggiati al fianco del gemello dell’Olympic.
La White Star Line aveva investito un mucchio di soldi nella costruzione di tre transatlantici gemelli, per questo dovevamo riprendere il mare in fretta.
Presero i pezzi di ricambio dal transatlantico gemello, in costruzione, e nel novembre del 1911 ricominciammo la navigazione.
Fino al febbraio del 1912, quando, in mare aperto, l’Olympic rallentò improvvisamente per poi fermarsi del tutto. Rottura dell’elica e addio traversata.
Sbarcai, preoccupata per aver perso quell’occasione. Fortunatamente la compagnia mi propose di salire a bordo del gemello dell’Olympic, ormai ultimato, come addetta ai passeggeri di prima classe.
Erano le sei del mattino del 10 aprile 1912 quando salii la scaletta del Titanic.
Diciassette ore di lavoro al giorno per 3 sterline e 10 scellini al mese.
La paga non era un granché, ma avevo bisogno di lavorare.
E non era poi così male lavorare in prima classe.
Il viaggio sarebbe dovuto durare otto giorni, con arrivo il 17 aprile al molo 59 di New York.
Ricordo che eravamo in navigazione da pochi giorni, quando sentii lo schianto.
Fu un iceberg a squarciarci la fiancata.
Capii all’istante che saremmo colati a picco, ma, come la legge del mare impone: prima le donne e i bambini.
Salii sulla scialuppa numero 16.
E mi salvai.
Prima l’Olympic, e poi il Titanic.
Gli amici mi suggerirono di cambiare mestiere, ma io non ero spaventata. Per questo ritornai sull’Olympic.
Fino al 25 aprile del 1914, quando decisi di rimanere a terra per frequentare un corso da infermiera.
Ne uscii in qualità di "nurse qualificata", pronta a fare la mia parte durante la guerra.
E l’occasione capitò.
Quando il Britannic, transatlantico gemello dell’Olympic e del Titanic, venne requisito e trasformato in nave ospedale.
E così mi imbarcai.
Era il 12 novembre 1916 quando salpammo da Southampton verso Lemnos, in Grecia.
Dopo aver fatto rifornimento a Napoli, superammo lo stretto di Messina per arrivare all’altezza dell’isola di Kea.
Quando una tremenda esplosione scosse la nave.
Era il 21 novembre 1916.
Il Britannic aveva appena urtato una mina navale tedesca, ed era scoppiato l’inferno.
Gli ci volle poco meno di un’ora per affondare.
Alcune scialuppe vennero sbriciolate dalle eliche che le avevano risucchiate.
Io riuscii a salvarmi. Ancora una volta.
Lo so, alcuni di voi stanno considerando il mio “fattore C".
E ci sta. Altri invece staranno pensando come procurarsi un amuleto.
Tranquilli.
Mi sono imbarcata di nuovo nel 1920, effettuando trentatré traversate sull’Olympic, e trentasei sul Majestic.
Per poi tornare a terra, ma solo per 7 mesi. Amavo troppo il mare. Presi di nuovo il largo e per anni ho lavorato a bordo del Belgenland.
Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, 7 traversate sulla Andes.
Per andare infine in pensione in un cottage inglese ad allevare galline.
Ho trascorso otto lustri in mare, e sono morta di insufficienza cardiaca nel 1971 all’età di ottantatré anni.
Sono sepolta nel piccolo cimitero di Hartest, nel Suffolk.
Io, Violet Constance Jessop, Miss Unsinkable, la ‘signorina inaffondabile’.
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Churchill lo aveva detto alla Camera dei Comuni.
“Il dittatore ha cominciato, pistola in pugno, a chiedere una sterlina. Quando la sterlina gli è stata concessa ne ha preteso un’altra, sempre minacciando con la pistola”.
Chiaro il riferimento ai precedenti.
L’Europa stava quindi per rotolare in una guerra? Probabile.
Hitler era stato di parola.
Aveva messo in stato d’allarme cinque divisioni per la frontiera francese e altre sette divisioni pronte ad entrare in azione il 30 settembre.
Per l’invasione della Cecoslovacchia.
Ma qualcosa era cambiato rispetto al passato.
Quelle sue mosse avevano scatenato una reazione. Che diavolo stava succedendo?
Hitler era stupito.
L’Italia era passiva, è vero, ma Roosevelt era intervenuto.
Il re di Svezia era intervenuto.
Il 12 agosto 1880 il Corriere della Sera pubblicò un lancio dell’agenzia Stefani che riguardava il piroscafo Jeddah.
Scrisse che l’equipaggio aveva abbandonato la nave, che era stata poi rimorchiata in porto dall’Antenor.
Nessuna vittima.
Tutto a posto quindi.
Ma era andata veramente così come la raccontava l’agenzia Stefani?
Era proprio tutto a posto?
Poteva quel lancio di tre righe nascondere un fatto talmente grave da gettare un’ombra sulla marina britannica?
Poteva, eccome se poteva.
Il piroscafo Jeddah era stato varato in Scozia nel 1872.
A farlo costruire un ricco mercante musulmano, Syed Mohamed Alsagoffe e la sua società, la Singapore Steamship Company.
Un piroscafo da 1000 tonnellate di stazza lorda.
A cosa doveva servire?
Aprile 1911.
Settimana scorsa ho mandato in stampa il mio libro.
Per evitare una censura da parte delle autorità, dato il contenuto altamente accusatorio nei confronti del Governo italiano, ho cercato di darne ampia diffusione.
Il prefetto voleva impedirmelo.
“In riferimento alla legge 28 giugno 1906 n° 278 non è possibile impedire la diffusione del libro” gli aveva scritto il Procuratore Generale.
Ho inviato quindi due copie anche al Re e Regina.
So che il prefetto va in giro a dire che l’autore di quel “lurido libello” deve pagare
28 maggio 1911.
Ho ricevuto indietro le copie che avevo inviato al Re Vittorio Emanuele e alla Regina Elena.
“Il Re vi ringrazia per il pensiero che avete avuto nell’inviare questa vostra opera, ma a Sua Maestà non interessa”.
Speravo molto in loro.
Di ottenere almeno giustizia.
C’era una volta, nell’anno del Signore 1284, una cittadina di nome Hameln, in Bassa Sassonia.
Gli abitanti erano infelici, stanchi, confusi, a causa di migliaia di topi che avevano invaso la città.
Inutili le continue proteste nella piazza sotto le finestre del borgomastro.
Il sindaco, alle prese con i topi che scorrazzavano pure nel suo studio, non sapeva cosa fare.
Quando si presentò al suo cospetto uno strano uomo con una giacca variopinta.
“Sono un disinfestatore” disse.
"Datemi una somma di denaro e io vi libererò dai ratti".
Al sindaco non parve vero di poter risolvere l’annoso problema.
Tentar non nuoce, pensò.
Si accordò sulla somma di denaro e affidò l’incarico all’uomo.
Questi uscì dal municipio, si incamminò verso una fontana, estrasse un flauto e iniziò a suonare una melodia.
“Ma sì, liberiamo il popolo romano da una preoccupazione incessante, visto che gli sembra troppo lungo aspettare la morte d’un vecchio”.
Tra poco il veleno che ho nell’anello porrà fine alla mia vita.
In fondo sono vissuto sessantaquattro anni.
Non pochi.
Ma con un rimpianto.
Lo avevo detto al mio grande nemico durante quell’incontro a Rodi.
L’incontro tra due veterani.
Stavamo discutendo della nostra vita e delle nostre battaglie quando lui mi chiese quali fossero per me i tre migliori condottieri di tutti i tempi.
Risposi che al primo posto avrei Alessandro di Macedonia.
Poi Pirro, il re dell’Epiro, e poi… me stesso.
Lui aveva sgranato gli occhi esclamando: ”Tu al terzo posto?
Ma allora?
Se tu mi avessi vinto?” “Vabbè in quel caso mi sarei messo al primo posto”.
«Salve Annibale.
Ti disturbo solo per informarti che domani racconterò la tua storia.
Già la conosci perché è contenuta nel libro “Dialoghi col passato”.
Doveroso, visto che in questi giorni sei sulla bocca di tutti per la commemorazione che il ministro Giuli ha fatto di Canne».
Mi stai prendendo in giro Johannes?
La battaglia di Canne è stata la più grande sconfitta militare di Roma.
Il ministro Giuli è per caso cartaginese?
Fenicio?
Certo, sono stato definito “"il più grande generale dell'antichità”, ma commemorare la battaglia di anne dopo 2240 anni…
«Che vuoi che ti dica.
Come sai nella politica italiana girano “personaggi strani”.
Comunque lui scrive “Duemiladuecentoquarantunesimo anniversario”. 2241. Perché tu hai scritto “dopo 2240 anni?
Vuoi che un ministro non sappia contare?»