Tempo fa Johannes vi ha raccontato la storia del calciatore cileno Carlos Caszelye e della partita fantasma disputata a Santiago su ordine di Pinochet.
Ricordando con dolore quell'11 settembre 1973 che cambiò la storia del Cile.
(Da leggere qui bit.ly/3FuPfOZ )
Ha solo accennato ai caccia Hawker Hunter di fabbricazione britannica che quel giorno sganciarono bombe incendiarie sul Palacio de la Moneda dove aveva sede il governo democratico di Salvador Allende.
Lui era lì.
Ma non era solo. bit.ly/32kOPfl
Io ero con lui, con il Presidente Allende.
Quando ero entrata nel Palazzo presidenziale quella mattina mai avrei immaginato quello che stava per accadere.
Che ci facevo nel palazzo?
Mi chiamo Beatriz, per amici e famiglia “Tati”.
Figlia del Presidente Allende.
Aspettavo un bambino, ma non volevo lasciare solo mio padre asserragliato nel Palazzo Presidenziale.
Fu lui che ordinò a tutte le donne e bambini di scappare dal palazzo.
Non avrei dovuto lasciarlo solo.
Una cosa che non mi sono mai perdonata.
Me ne andai mentre mio padre, così hanno raccontato, si toglieva la vita con un fucile AK-47 che gli era stato regalato da Fidel Castro.
Non mi interessa sapere come è morto veramente.
Se è stato un suicidio o ucciso dai golpisti mentre difendeva La Moneda.
Io ero una rivoluzionaria.
Quando mio padre era stato eletto, il 4 settembre 1970, ero diventata la sua più stretta collaboratrice. Sicura che lui non si sarebbe mai arreso.
Ma mentre lui si ritirava nel Salon Independencia per appoggiare un fucile al mento, io stavo scappando.
Costretta all’esilio con mia madre, le mie sorelle e mia figlia.
Quella “vergogna” non mi abbandonò mai.
Quella di aver abbandonato mio padre mentre La Moneda veniva bombardata.
Anche se me l’aveva chiesto lui.
Il giorno dopo, 12 settembre, ero su un aereo diretta a Cuba. Ero con mia figlia Mayita, due anni, e promisi a me stessa che sarei stata sempre fedele a mio padre, continuando a lottare per il mio Paese da Cuba.
E così feci. Con tutte le mie forze.
A Cuba fondai e diressi il “Comité chileno antifascista”.
Senza riuscire a dimenticare quel giorno.
Dopo due anni di esilio chiesi a Fidel Castro di poter tornare in Cile a combattere la dittatura.
Mi venne impedito.
Non so. Come pensavano di sconfiggere quel fascismo? Con le parole? Con l’indignazione?
Io volevo combattere. Tutti dicevano che io ero il “figlio” maschio di Salvador Allende.
Perché dicevano questo?
Perché tutti pensano che la rivoluzione sia roba da uomini. E' assurdo.
Ricordate che ero incinta? Nacque Alejandro Salvador Allende Fernández.
Viaggiavo spesso per organizzare la diaspora cilena. L’esilio era vissuto da tutti come uno sradicamento.
Io soffrivo troppo.
Anche perché avevo capito che la causa cilena non era più una priorità per Cuba
Volevo scrivere un libro per spiegare all'opinione pubblica internazionale cosa stava accadendo in Cile.
Tutti quegli scomparsi, i campi di concentramento, la povertà.
Ma ormai avevo capito che era tutto inutile.
Ero impotente. Senza speranza.
E così la parola “vergogna” cominciò ad ossessionarmi.
Vergogna per esser scappata da quel palazzo.
Per aver lasciato solo mio padre.
Per non riuscire a cambiare le cose.
Per non riuscire ad aiutare il mio Paese.
Per non essere una buona madre.
E fu così che dissi “basta!”
Quattro anni dopo la morte del padre, martedì 11 ottobre 1977, Tati portò la figlia a scuola.
Come ogni giorno.
Ma non fu un giorno come gli altri.
Arrivata a casa salì al secondo piano, si mise un fucile tra le gambe, e si tolse la vita a soli 34 anni.
Sua madre, Hortensia Bussi, vedova di Allende, al suo funerale all'Avana, pronuncerà queste parole: «Prima o poi la democrazia tornerà, Tati tornerà in Cile, la gente la onorerà come merita e riposerà insieme al suo caro papà»
I resti di Tati tornarono in Cile nel 1992.
Nell’indifferenza generale. Nessun tributo. Niente onori. Nessuno alzò mai un dito per ricordarla.
Perché Tati rappresentava la parte rivoluzionaria del Cile. Nulla a che vedere con i governi della Concertación.
Tati era una rivoluzionaria. Sperava di trovare qualcuno disposto a combattere, se fosse servito.
Ma le persone cambiano. I tempi cambiano.
"Nosotros los de entonces, va no somos los mismos".
«Noi, quelli di allora, ormai non siamo più gli stessi».
(Pablo Neruda)
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
Se ho mai sentito la frase:"E' roba da uomini?"
Hai voglia.
Sono cose che dicono da sempre a noi donne.
Sei donna?
Mica puoi fare questo!
Mica puoi fare quello!
Non puoi certo avere il coraggio di guidare un'auto da corsa e battere i maschi!
Ricordo che era il 1962.
Ero una dei piloti di rally di maggior successo. Svedese.
Probabilmente non sarei mai andata a quella corsa in Argentina, una delle più dure al mondo.
Poi cosa mi vengono a dire?
Che non sarei mai stata capace di finire quella corsa. Figuriamoci vincere.
Ora.
So benissimo come siamo considerate noi donne quando si tratta di motori.
So anche che se chiedi ad una bambina cosa vuole fare da grande difficilmente risponderà “pilota di auto”.
Lo so.
Quello che voi forse non sapete, è questo.
Non bisogna mai sfidare una donna.
Mai.
“Pilotino” mi chiamavano.
Rispetto ad oggi altro che pilotino.
Provate a farli correre con la Maserati dei miei tempi. Con quel volante che mi stampava una mezza smorfia ogni volta che lo dovevo girare, con il cambio in mezzo alle gambe e con l’acceleratore e freno invertiti.
Come sono arrivata, una contessa che abitava nel Palazzo Bianco di Merigliano e con un papà ingegnere che aveva elettrificato l’irrigazione in Campania, su un circuito?
Sinceramente non lo so.
Io amavo i cavalli.
Erano i miei fratelli che amavano correre.
Sono nata a Napoli l’11 novembre 1926.
E proprio grazie alla passione di due dei miei quattro fratelli, vinsi proprio in provincia di Salerno la mia prima gara.
Era il 1948 e su una Fiat Topolino 500 vinsi la 10 Km di Cava de' Tirreni.
E tutto per una loro scommessa
Cosa abbiamo i comune noi quattro?
Quelli della foto intendo.
Due cose.
La prima.
Siamo quattro pionieri della cardiologia interventistica.
Nella foto siamo all’Università di Zurigo nell’agosto del 1980.
Ricordo che era un meeting sull’angioplastica.
Mason Sones (a destra) fu quello che eseguì la prima arteriografia coronarica il 30 ottobre del 1958. Possiamo dire in un modo del tutto casuale.
Quando accidentalmente il mezzo di contrasto finì all’interno della coronarica di destra.
Malgrado ciò il cuore non andò in fibrillazione.
Da quell’esperienza Sones comprese che piccole quantità di mezzo di contrasto non erano mortali per i pazienti.
Ciò avrebbe permesso di studiare meglio l’albero vascolare cardiaco.
Perché non ho mai vinto le Olimpiadi?
Bella domanda.
So solo che ad ogni partecipazione era sempre la solita storia: “non corrisponde agli schemi tradizionali”.
Mi chiedo, ma quale progresso puoi ottenere seguendo solo schemi tradizionali, facendo sempre le stesse cose?
Se parliamo di sport.
Dick Fosbury ha seguito uno schema tradizionale?
Ulrich Salchow, svedese, primo campione Olimpico nel 1908, ha seguito uno schema tradizionale facendo il primo salto Salchow nel 1909?
Ma per piacere.
Chi sono?
Sono Surya Bonaly.
E questa è la mia storia.
Sono nata sull’isola della Riunione, un'isola dell'oceano Indiano occidentale
A 18 mesi sono stata adottata da una coppia di Nizza. Fu mia madre ad insegnarmi a pattinare.
Ma praticai anche ginnastica artistica a livello agonistico.
Fu quello che mi aiutò ad entrare nella storia
Sto morendo dissanguata.
Sento il sangue scorrere accanto a me mentre ripenso a quello che è stata la mia vita nei palazzi dorati.
Mai immaginato di poter finire in questo posto.
Ma dopo essere passata per il campo di smistamento a Bolzano mi avevano portata qui, vicino a Weimar
Ricordo l’entrata, e quel cancello con la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”.
Non sapevo cosa volesse dire, ma non mi ci volle molto per capirlo.
Significava essere arrivati all’inferno: l’inferno del campo di concentramento di Buchenwald.
Era il 18 ottobre del 1943.
Il mio nome è Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana, principessa d’Italia, Etiopia e d’Albania, figlia di Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro. Sposata col principe tedesco Filippo Langravio d'Assia-Kassel.
Inverno 1944 – Mi chiamo Sara e ho tredici anni.
Tre anni fa vivevo in Lituania con tutta la mia famiglia, poi erano arrivati i tedeschi.
Mio padre e mio fratello erano stati rinchiusi nella "Fortezza numero sette".
So che sono stati uccisi, con altre centinaia di ebrei.
Ero stata separata da mamma e da mia sorella.
Loro portate altrove, non so dove.
Io, a soli 10 anni, rinchiusa in un campo per bambini.
Per ben tre anni.
“Avevo perso totalmente la nozione del tempo, non sapevo più che giorno fosse, notavo soltanto il cambiamento delle stagioni”
Era un giorno d’inverno quando i tedeschi radunarono noi bambini per caricarci su dei carri bestiame.
Fu un viaggio lungo.
Quando il treno arrivò faceva freddo.
Fa sempre molto freddo d’inverno ad Auschwitz.
Mi chiamo Sara e come detto ho tredici anni.