Mi hanno chiamato in vari modi.
Una “visionaria”, “la suffragetta dello sport”, “la pasionaria”, “la militante”.
Soprattutto una donna che non sapeva stare al suo posto. Cioè tra i fornelli. Secondo loro.
Sapete come ci chiamavano i maschietti giornalisti?
Le “atletesse”.
Come una specie rara, non meglio definita.
In fondo era l’epoca in cui Pierre de Coubertin, il barone dei cinque cerchi, dichiarava orgogliosamente che era contrario all’ingresso delle donne nell’Olimpiade.
Per lui eravamo esseri inferiori.
Donne che facevano sport?
Non sia mai. Inaccettabile.
Ma non per me.
Ero nata a Nantes il 5 maggio 1884.
Il papà Hyppolite gestiva un negozio di alimentari sotto casa, mamma Joséphine era una sarta.
Sono nata in un periodo dove le donne avevano diritti civili molto limitati.
Limitati nella vita, ma non nello sport, dove non erano nemmeno previsti.
Una donna che praticava sport era vista come una selvaggia da rinchiudere.
Ci “lasciavano” praticare solo alcuni sport come il golf, il tennis, i pattini e la vela.
Solo per prenderci in giro.
Cosa davano alle vincitrici?
Medaglie come agli uomini?
E quando mai.
Solo oggettistica d'arredo per ornare la casa.
Come alla grande Margaret Abbott (una storia raccontata da Johannes tempo fa) che ebbe una ciotola di porcellana per la sua vittoria in una gara di golf.
Io volevo cambiare le cose.
A diciotto anni ottenni un incarico come istitutrice in Inghilterra.
E lì conobbi Joseph Milliat, che divenne mio marito.
Da Alice Million divenni Alice Milliat.
Joseph morì appena quattro anni dopo il nostro matrimonio.
Da quel momento dedicai ogni energia alla causa.
A Londra iniziai a praticare il canottaggio.
Affiliata alla società sportiva Femina Sport, creata nel 1911, divenni presidentessa nel 1915, e nel 1917 fondai la FSFSF, la Federazione Francese delle Società Sportive Femminili.
Nel 1921 creai la Federazione Sportiva Femminile Internazionale, cioè la FSFI. Dovevate vedere i maschietti quando sponsorizzai sport per femmine come rugby, calcio e ciclismo. Un vero scandalo. Come nel 1917. Organizzai il primo campionato nazionale francese di atletica leggera
Scandalo, come quando si disse che Violette Morris avesse partecipato ad una gara senza reggiseno.
Una donna senza reggiseno farebbe notizia ai giorni vostri? Non credo. Passi avanti ne avete fatti,vero?
Il problema era che non esistevano abiti adatti a fare sport per le donne
Nel 1922 non ero più sola a combattere la mia battaglia.
E allora decisi che era giunto il momento di organizzare qualcosa che avrebbe rovinato il fegato non solo a De Coubertin, ma a molti maschietti dell’epoca.
Non volevano donne alle Olimpiadi? Va bene.
Il 20 agosto 1922 organizzai a Parigi i primi “Giochi Olimpici femminili”. Davanti a 15.000 spettatori.
77 le donne partecipanti, provenienti da 20 paesi, tra cui Cecoslovacchia, Francia, Inghilterra, Svezia, Svizzera e Stati Uniti.
La gara aperta con una cerimonia olimpica.
Quando i giornali paragonarono quei giochi a quelli del barone de Coubertin, lui andò su tutte le furie.
Quando mi proibirono di usare il termine “Olimpici”, ripiegai su “Giochi mondiali femminili”.
Che, diciamo la verità, era anche meglio.
Nel frattempo li ripetei nel 1926 a Göteborg con il re Gustavo V di Svezia alla cerimonia di apertura.
Naturalmente le medaglie vinte non vennero mai riconosciute ufficialmente.
“Le persone sono interessate allo sport femminile", dichiarai "non è già di per sé un successo?"
Era da sola contro tutte le istituzione maschili del tempo.
Ma continuai a lottare.
Mi sminuirono aspettando che io mi arrendessi.
Non accadde.
E nel 1928 alle donne fu concesso di gareggiare in cinque gare di atletica leggera alle Olimpiadi di Amsterdam.
Avevo sconfitto De Coubertin che intendeva mantenere l’antico rito greco che impediva alle donne di partecipare ai Giochi Olimpici, se non in qualità di spettatrici.
Lui, che definì i miei giochi: “una mezza Olimpiade, non pratica, non interessante, inestetica, scorretta”
Se oggi le donne possono gareggiare tranquillamente con gli uomini un po’ di merito è mio.
Anche per i premi.
Finalmente medaglie, basta con oggetti utili per la casa.
Ve la immaginate Federica Pellegrini con la casa piena di pentole e arnesi da cucina?
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Ieri sera ho concluso il thread sugli sprechi nella ricostruzione in Irpinia con:
"Esiste una storia, uno spreco che più di ogni altro può rappresentare quell'enorme sperpero di denaro? Esiste.
Eccome se esiste.
E riguarda una fabbrica che doveva imbottigliare vino".
Iniziamo.
Giugno 1990.
Palazzo San Macuto è la sede della commissione d’inchiesta presieduta da Oscar Luigi Scalfaro.
Oggi è un giorno particolare.
È stato convocato da Scalfaro Elveno Pastorelli, da tre anni commissario straordinario per la ricostruzione.
Nei mesi precedenti sono stati ascoltati Misasi (ministro del Mezzogiorno) e Vito Lattanzio (Protezione civile).
Tutti tendono a minimizzare, a dire che le cose stanno andando bene con la ricostruzione.
Certo, con qualche ritardo, ma secondo loro va tutto a meraviglia.
Gli sperperi di denaro pubblico post terremoto dell’Irpinia sono ormai entrati nella storia di questo Paese.
Una brutta storia, riassunta in dieci volumi presentati al Parlamento il 5 febbraio 1991 e inviati a varie procure da una commissione d’inchiesta presieduta da Scalfaro.
La commissione aveva il compito di verificare l’ammontare dei finanziamenti per la ricostruzione delle zone colpite dal sisma del 1980.
Di più.
Doveva controllare lo stato di avanzamento dei lavori, le modalità, l’impatto ambientale e territoriale.
Sull’impatto territoriale i tecnici del servizio Impatto ambientale del Min. dell’Ambiente parlarono chiaro: “la scelta dei tracciati dove ricostruire case, industrie e strade è avvenuta indipendentemente dalle condizioni geomorfologiche, geologiche e geotecniche dei terreni.
26 settembre 1983 - “E’ necessario eliminare il pagamento a piè di lista.
Bisogna distribuire i fondi che servono, ma chi supererà il tetto prefissato dovrà risponderne”.
Una dichiarazione di buon senso appena espressa dal Ministro della Sanità del Governo Craxi.
Si chiama Costante Degan, Dc, cattolico.
Una persona perbene, capace di mettere ordine senza stravolgere.
Rispettoso di tutto e tutti.
Craxi ha tre obiettivi: una diversa politica dei redditi, la riduzione dei costi del sistema previdenziale e quelli del servizio sanitario.
Il lavoro, quest’ultimo, proprio di Degan.
Sul primo punto ci sarà da ridere (o piangere) poiché su questo tema lo scontro col PCI è frontale.
Solo a parlare di blocco della scala mobile a qualcuno si sono già rizzati i capelli.
Vedremo come andrà a finire.
Correva l'anno 1983.
Quando Pietro Longo arriva al Bilancio, nel Governo Craxi, nel FIO ci sono ancora 1.210 miliardi assegnati, ma non ancora spesi.
A questi stanno per aggiungersi quelli assegnati per il 1984.
Ma cos'è il FIO?
Facciamo un passo indietro.
A un anno prima.
Anno 1982.
Viene creato il Fondo per gli Investimenti e l’Occupazione (FIO) con lo scopo di "sostenere gli investimenti pubblici, soprattutto tramite l’analisi di progetti di rapida esecuzione e di importante impatto sociale, in situazioni di restrizioni della spesa statale".
Giorgio La Malfa ha avuto un’idea straordinaria per quanto riguarda i progetti presentati al FIO.
I finanziamenti gestiti da questo ente, almeno quelli effettivamente destinati agli investimenti, sono risorse pubbliche che devono essere spese con lungimiranza.
Pur nella disgrazia ebbi la fortuna di non vederle separate.
Sono infatti morto il 25 ottobre 1945, quattro anni prima della perdita di una delle mie gemelle.
Sicuramente non avrei resistito all’immenso dolore di quella separazione.
In fondo erano da sempre le mie creature.
Le mie bellissime creature.
Mi chiamo Francesco Rotundi, nato a Foggia il 10 luglio 1885.
Come nacque l’amore per quelle come loro?
Avevo quindici anni, quando durante una gita scolastica al porto di Manfedonia ebbi l’occasione di vederle.
Erano bellissime.
E cominciai a sognare.
A sognare di progettarle, intendo.
Da qui gli studi e la laurea in ingegneria navale a Genova.
Poi l’entrata in Marina, e come ufficiale del Genio navale l’incarico di direttore degli Arsenali di Venezia, Taranto e Napoli.
Ma quel sogno era sempre lì.
Fino a quando…
Un tempo era un vanto.
Oggi solo un lontano ricordo, anche per i più anziani.
I più giovani molto probabilmente non l’hanno mai visto, neppure in fotografia.
Dispiace, perché fu qualcosa di straordinario.
Perché la mia, anzi la nostra, fu un’impresa straordinaria.
Una sfida quasi impossibile.
Alzare quel prestigioso trofeo, intendo.
Creato nel 1838 era stato vinto per venticinque volte dagli inglesi, sette dai tedeschi e una dagli americani, nel 1852.
Nemmeno una volta da noi italiani.
Una sfida quindi, "quasi" impossibile.
Il piano era stato preparato in gran segreto quando era ancora in allestimento nei Cantieri Ansaldo di Sestri Ponente.
Era il 1931 e sarei stato io il suo comandante.
Mi chiamo Francesco Tarabotto, Capitano superiore di lungo corso diplomato all'istituto Nautico di Genova.