La gente non l’aveva presa bene.
Il mio ingaggio, intendo.
Era il 1949 e il Manchester City aveva un problema: sostituire la leggenda Frank Swift che aveva ormai 36 anni.
Avevano pensato a me.
Ero preparato alle proteste.
Le ferite della seconda guerra mondiale ancora aperte.
Quando firmai l’ingaggio la voce si sparse e la comunità ebraica di Manchester diventò furiosa.
I giornali invasi da lettere e telefonate di protesta. “Nazista”, “Criminale di guerra” mi urlavano durante gli allenamenti. Non mi volevano.
In fondo li capivo.
Tutto era cominciato a Brema il 22 ottobre 1923.
Un periodo difficile.
La Germania di Weimar in un’economia depressa, il marco carta straccia e file infinite davanti ai negozi per trovare qualcosa da mangiare.
E’ in quel giorno che sono nato.
Io, Bernhard Carl Trautmann.
E poi l’ascesa di Hitler.
Papà era un moderato, ma quando nacque mio fratello per non perdere il lavoro si iscrisse al partito nazista.
Che altro poteva fare?
E io, a 10 anni, diventai un componente dei Deutsches Jungvolk, la sezione gioventù hitleriana dai 10 ai 14 anni.
Nel 1939 mi arruolai volontario nella Luftwaffe.
Come paracadutista.
Dopo aver combattuto tre anni in Russia, mi spostai in Francia sulle Ardenne.
Catturato nel marzo 1945 venni portato in Inghilterra come prigioniero di guerra.
Categoria C, nazista da rieducare.
Mi trattarono umanamente.
Fu in quei campi che iniziai a giocare a calcio.
Erano partite tedeschi contro inglesi.
E ci mettevo impegno. Anche troppo. Durante una partita dopo averle date, ne presi un bel po’. Mi feci male. Volevano che uscissi. Rifiutai. “Vado in porta”, dissi
E’ lì che è cominciata la mia carriera.
Venivano in molti a vederci.
Trovai un ingaggio in una piccola squadra di Liverpool. Era l’estate del 1948. Niente era come oggi. Palloni di pelle dura con cuciture, niente guanti, campi ridotti a paludi.
Ma io ero imbattibile tra i pali
Fino all’offerta del Manchester City. Avevo paura della reazione dei miei compagni. Il capitano Eric Westwood( sul fronte opposto in Normandia) disse:”Non c’è guerra in questo spogliatoio, ti diamo il benvenuto come va dato a ogni membro dello staff, sentiti a casa,buona fortuna"
Dopo alcune apparizioni tra le riserve, a 26 anni avvenne il mio debutto.
Fu Swift a darmi l’unico consiglio: “ignora le urla, la folla, concentrati sul campo”.
Ricordo che in quella partita le urla furono tante.
All’inizio.
Alla fine le urla diventarono applausi.
Essendo molto amico di Adolf Dassler, per gli amici Adi, diventai il suo primo testimonial.
Sì, il fondatore dell’Adidas (suo fratello fonderà poi la Puma).
Per tutti ero ormai "Bert" Trautmann.
Non eravamo una squadra fortissima.
Mai oltre il quarto posto.
Riuscimmo però a vincere la FA Cup del 1956.
Quell’anno ero stato nominato calciatore dell’anno.
In finale incontrammo il super favorito Birmingham City. Vincemmo 3-1, ma per me non fu una partita normale.
Si sfiorò la tragedia.
Era il minuto 75 quando uscii sui piedi di Muphy, attaccante del Birmingham.
Il suo ginocchio picchiò violentemente contro il mio collo. Persi coscienza per qualche minuto.
Quando mi ripresi finii la partita come avvolto in una nebbia. Non ricordavo niente.
Alla fine della partita mi portarono in trionfo.
Ma il referto dell’ospedale fu impietoso. Avevo giocato, dopo lo scontro, con la frattura di una vertebra e lo spostamento di altre tre.
Fine della carriera, mi dissero.
Non diedi loro ascolto.
Giocai fino a 41 anni.
Dopo quella finale andai a Düsseldorf ad assistere a Germania Ovest-Inghilterra.
No, non ho mai potuto giocare nella mia nazionale.
La regola era: niente giocatori che giocano all’estero.
Fu lì che mi comunicarono la morte del mio piccolo John, travolto da un’auto
Ho giocato 15 anni e 545 partite nel Manchester City.
Finita la carriera ho fatto l’allenatore.
Me ne sono andato nel 2013, all’età di novant’anni con la soddisfazione di avere avuto l’ordine di merito sia tedesco che dell’impero britannico.
Due nazioni finalmente in pace.
“Ci sono stati due soli portieri di classe mondiale. Uno ero io, l’altro era il ragazzo tedesco che giocava a Manchester. Bert Trautmann.”
(Lev Yashin, primo ed unico portiere a vincere il Pallone d’Oro)
Entrambi nati il 22 ottobre.
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Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema.
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni.
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali.
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.