Questa è la seconda e ultima parte che racconta l’assedio di Leningrado durante la seconda guerra mondiale.
(Leggi qui la prima parte bit.ly/36EFbpM ).
La città è ormai assediata, ma gli abitanti non hanno intenzione di scappare, anzi.
Vogliono resistere.
La situazione alimentare è in mano a un funzionario inviato per l’occasione.
Si chiama Dmitri V. Pavlov.
Si dimostrerà una persona capace nella gestione di quell’emergenza.
Prima del gelo fa raccogliere le patate da tutti i campi sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca.
Requisisce malto e avena nelle birrerie.
Fa elaborare dai chimici un impasto di cellulosa da aggiungere al pane.
Il pane è immangiabile, ma quello c’è. Distribuisce e tiene sotto controllo le tessere annonarie.
E intanto arriva il primo inverno, 1941-1942.
E con esso la paura
Al calar della notte nelle case c’è solo buio, fame e freddo.
Chi riesce ad aprire gli occhi la mattina dopo può dirsi fortunato.
I vecchi iniziano a morire.
I giovani ad ammalarsi di una febbre che uccide in pochi giorni.
Di animali ormai nemmeno l’ombra.
La gente inizia a mangiare la carta.
E credendo che fosse fatta di fecola pure la colla.
I neonati, con mamme magre, senza seno, senza latte, senza cibo, muoiono di fame dopo pochi giorni.
Le assenze nelle fabbriche raggiungono il 50%.
Con 20/30 gradi sotto zero la gente comincia a morire di notte pur con un cappotto addosso.
Nel frattempo i topi festeggiano. Ancora non sanno che lo potranno fare ancora per poco.
La fame spinge la gente comune a delinquere.
Il delitto compiuto per procurarsi un tozzo di pane viene giustificato.
La polizia allo stremo. Nel gennaio 1942 muoiono di fame 166 poliziotti. A febbraio 212. E così via.
Ogni mese il numero aumenta.
Prima dell’assedio arrivavano 120 convogli pieni di combustibile.
Ora solo un paio di treni carichi di sola legna.
E le fabbriche piano piano iniziano a chiudere.
Gli ospedali riescono a stento a tenere la temperatura ambientale sopra zero gradi.
Poi improvvisamente, l’8 gennaio 1942, la radio si spense.
L’unica voce d’informazione.
La gente accorse e disse che avrebbe rinunciato anche al pane, ma non alla radio.
Senza, era come essere morti.
"Almeno la musica" urlavano.
La radio riprese vita.
Si poteva ascoltare però solo negli uffici pubblici perché quelle private erano vietate.
Le pompe funebri? Introvabili.
La gente usava una slitta dove poneva il cadavere e lo trascinava per chilometri fino al cimitero.
Al mercato nero si vendeva di tutto.
Anche polpette, ma nessuno le comprava.
Giravano strane voci.
Andava per la maggiore la “terra di Badajev”.
Ricordate il più grande deposito di generi alimentari distrutto da un bombardamento tedesco?
Si trovava proprio a Badajev.
Era quella roba lì, insomma.
Un misto di zucchero fuso, farina, cenere, polvere e terreno.
Ma c’era pur sempre la “Strada della vita”.
Niente rifornimenti aerei, niente rifornimenti via terra, cosa restava? Ma certo, il lago Ladoga.
Ma non era navigabile. Era inverno e il lago era ghiacciato.
Decisero di costruire una strada su quel lago.
In fondo erano solo 300 Km di cui 50 sul pelo dell’acqua ghiacciata.
Fu il generale Lagunov a organizzare il passaggio. Migliaia di operai e contadini ne iniziarono la costruzione.
La cosa fondamentale era quella di avere sotto almeno 20 cm. di crosta. Almeno.
Che ogni volta veniva segnata con una bandierina rossa. Pericolosissimo.
I primi autocarri sprofondarono. Si aprirono nuove piste. Si riuscì ben presto a rifornire la città di 6-700 tonnellate di viveri. Ne servivano 2.000. Attraverso quella strada mezzo milione di persone lasciò Leningrado. In primavera la strada si sciolse.E i rifornimenti cessarono
I tedeschi non usavano solo le armi.
“Mezzi psicologici” li chiamavano.
Migliaia di volantini furono lanciati sulla città cercando di convincere gli abitanti che loro erano i veri liberatori. Lanciarono anche sacchi pieni di rubli falsi.
E anche carte annonarie.
E tanti, tanti giocattoli.
Che esplodevano una volta raccolti.
Come le penne colorate.
Tante penne colorate.
Fortunatamente la polizia aveva avvisato gli abitanti del pericolo.
Non venne raccolto mai niente, neppure i volantini.
I tedeschi pensavano di prendere Leningrado in sei/otto settimane. L’assedio, iniziato il 30 agosto ‘41 finirà il 27 gennaio del ‘44. Quasi 900 giorni, quando la controffensiva dei sovietici riuscirà a creare una larga falla nello schieramento tedesco.Costringendolo ad arretrare
“Nessuno conoscerò mai il numero esatto delle vittime in quei 900 giorni”.
Questa la conclusione di un’inchiesta degli anni ’60 de la “Stella Rossa”, giornale dell’esercito sovietico. Usiamo alcuni numeri.
All’inizio dell’assedio la città contava 3 milioni di abitanti.
L’unica cifra ufficiale rilasciata dalle autorità fu 623.253. Il numero dei morti per fame.
Ripetiamolo insieme. 623.253.
Poi i 70.000 morti, soldati dell’Armata Rossa.
Poi? Se aggiungiamo le vittime in prima linea e sotto i bombardamenti?
Non sono solo numeri.
Il sacrario di Piskarevskij è un insieme di fosse comuni scavate con la dinamite.
Il poeta Davydov visitandolo esclamò: “Qui riposa mezza città”.
Tenendo conto di circa mezzo milione o più di evacuati, alla liberazione gli abitanti erano poco più di 600.000.
Mai solo numeri.
In quei 900 giorni d’assedio i tedeschi distrussero abitazioni per 700.000 persone.
526 tra scuole e asili. 27 istituzioni scientifiche, 101 tra musei e centri universitari. 187 edifici del ‘700 e ‘800. 840 fabbriche e depositi.
E 71 ponti.
Ma gli abitanti non si arresero.
L’assedio era iniziato il 30 agosto 1941.
Il primo treno carico di viveri arrivò a Leningrado il 7 febbraio 1944.
Quel giorno i superstiti capirono che l’assedio era finito.
900 giorni.
E nessun banchetto organizzato all’Hotel Astoria dal Feldmaresciallo Ritter von Leeb.
Quello di Leningrado è stato l'assedio più lungo di tutta la seconda guerra mondiale e ad oggi il secondo più lungo della storia moderna.
Lo supera quello di Sarajevo, degli anni '90.
Ma questa, è un’altra storia.
Terribile, come tutte le storie di una guerra.
Per la loro eroica resistenza 470.000 superstiti furono decorati nel 1945 con l’Ordine di Lenin.
Magari anche i genitori di una bambina.
Una bambina che oggi, cresciuta, continua a ripetere: ”Ragazzi, sono una sopravvissuta all'assedio di Leningrado”.
Quando ho visto il video di quella nonnina ho avuto un tuffo al cuore. Ho chiuso gli occhi e immaginato lei bambina in quei 900 giorni.
E il suo dolore straziante nel rivivere quei momenti. Cosa mi sento di dire? Una cosa sola.
La guerra è sempre e solo merda. Nulla più.
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Qual è stata, nella storia, la durata media di una guerra?
Una risposta non semplice.
Nel mondo antico e in quello medioevale ci sono state guerre di durata lunghissima.
Nel mondo moderno ci sono state anche guerre lampo, in tedesco Blitzkrieg.
Nel mondo antico sono diverse le guerre di una certa durata.
La Guerra del Peloponneso per esempio.
Venne combattuta in Grecia e nel Mediterraneo tra le due città rivali, Atene e Sparta e i loro alleati.
Durò all'incirca 27 anni, dal 431 a.C. al 404 a.C.
Le Guerre Puniche, che si sono combattute tra Roma e Cartagine per la supremazia del Mediterraneo, sono durate complessivamente circa quarantatré anni.
Ventitré la prima (dal 264 al 241 a.C.), diciassette la seconda (dal 218 al 201 a.C.) e tre la terza (dal 149 al 146 a.C.)
L’epigrafe sulla mia tomba mi definisce “gloria del genere umano”.
Non so.
Avete presente un bambino su una spiaggia che trova, prima una pietra variegata, poi una conchiglia a più colori dinanzi ad un oceano ancora inesplorato?
Ecco, penso di essere stato solo quel bambino.
Su quello che mi accadde nell’estate del 1666, nel giardino della mia casa natale di Woolsthorpe, Voltaire ed Eulero ci hanno ricamato sopra.
Una mela in testa, ma via.
In testa no di sicuro.
E quando mai.
Forse è il caso di raccontarvi un po’ della mia vita.
Dall’inizio.
Sono nato appunto a Woolsthorpe, nella Contea del Lincolnshire, il 25 dicembre del 1642.
Secondo il calendario giuliano.
Dieci giorni dopo, il il 4 gennaio 1643, secondo il calendario gregoriano.
Quello che forse non sapete, è che sono nato povero.
Molto povero.
E' il 26 giugno 1975.
Cristina sta per uscire di casa.
L'amico Marco è venuta a prenderla e con l'amica Emanuela hanno intenzione di andare in qualche locale a sentire un po' di musica.
Cristina, 18 anni, è figlia dell'imprenditore Mazzotti e abita in una villa a Eupilio (CO)
I tre amici hanno passato la serata in un bar di Erba.
Con la Mini Minor di Marco stanno per rientrare a casa.
Ridono, scherzano, quando all'improvviso una Fiat 125 taglia loro la strada.
Quattro uomini, col bavero alzato per nascondere la faccia, scendono dall'auto.
I 3 ragazzi vengono fatti salire sui sedili posteriori della Mini.
E partono.
A un tratto l'auto si ferma.
"Chi di voi è Cristina Mazzotti?"
"Sono io".
Le infilano un cappuccio in testa e la trasferiscono sulla 125.
Che ci faccio fuori dalla chiesa in Piazza Don Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma?
Non mi lasciano entrare in chiesa.
O meglio.
Non ci lasciano entrare in chiesa.
Come è possibile?
È possibile sì.
Forse è meglio che vi racconto quando, e come tutto è cominciato.
Non ero mai stata a Roma.
Erano gli anni 70 e da San Candido in Alto Adige ero venuta in gita con la parrocchia.
E poi quel pomeriggio, libero per tutti.
Io ero sola.
Nessuna amica, niente fidanzato, nessun familiare.
Andare da sola per Roma non fu una bella idea.
Perdersi fu un attimo.
Ricordo che fu lui ad avvicinarsi.
Gli chiesi come arrivare a Piazza Venezia.
Fu il mio accento a tradirmi.
Tedesca?”, mi chiese.
No”, risposi, “vengo dall’Alto Adige”.
“Ah, dove prendete in giro gli italiani!”.
La nostra storia d’amore iniziò quel giorno.
Oggi il Torneo al Queen’s Club è riservato ai soli uomini, ma non era così ai miei tempi.
Era comunque considerato, come oggi, la migliore anticamera prima della partecipazione a Wimbledon, il mio obiettivo.
E la mia spalla non va ad infiammarsi giocando proprio quel torneo?
Una sfortuna sfacciata.
Ero arrivata da poco proprio per fare il grande salto.
Negli USA, la mia patria, avevo vinto molto, per quello avevo deciso di sbarcare in Europa.
E avevo iniziato vincendo i Tornei di Surbiton e Manchester come preparazione a Wimbledon.
Mi presento.
Mi chiamo Maureen Connolly e sono nata il 17 settembre 1934 a San Diego, in California.
Papà voleva un maschio, e per molti anni ho sempre creduto che fosse mia la colpa.
Del suo abbandono, dopo avermi promesso che sarebbe andato a comprarmi un gelato perché avevo la febbre.
Cosa darei per vincere questo torneo?
C’è gente che sarebbe disposta a tutto anche solo per essere presente come spettatore, figuriamoci come protagonista in campo.
Dicono che non posso vincere.
Sono d'accordo.
In conferenza stampa ho detto che darei una mano pur di riuscirci.
C’è sempre dell’ansia prima di entrare in campo.
Ci si veste, poi i soliti riti scaramantici, e infine qualche minuto seduto in attesa della chiamata.
Tra poco sfiderò in finale, sul manto erboso del Centre Court di Wimbledon, il vincitore dell’anno scorso.
Numero uno al mondo.
Non ci sopportiamo.
Vecchia ruggine per questioni di patriottismo.
Non avendo risposto a una chiamata della nazionale per giocare delle amichevoli lo avevo definito “antipatriottico”.
Una causa di risarcimento in corso.
Siamo diversi.
Non solo per il colore della pelle.