Che sarebbe finita in tragedia lo sapevano tutti.
Lo avevano visto in Grecia e in Africa e lo avevano avvertito.
Ma lui niente.
Lui voleva dimostrare a Hitler di non essergli inferiore e che il suo esercito non avrebbe sfigurato in un confronto con la Wehrmacht.
Una pazzia.
Aveva detto al maresciallo Cavallero: “Non possiamo essere estranei a questo conflitto perché si tratterebbe di lotta contro il comunismo”.
In realtà voleva solo rivendicare una parte nella spartizione della torta sovietica al momento di ridisegnare gli equilibri internazionali.
E così, quando il 22 giugno gli era stata consegnata la lettera di Hitler che lo informava dell’inizio delle ostilità con Mosca, lui si era precipitato a chiedergli di poter partecipare con un corpo di spedizione.
Malgrado sapesse che Hitler ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Non lo capì, essendo di coccio, nemmeno quando i giorni passavano e la risposta non arrivava.
Arrivò dopo una settimana.
E non poteva che essere affermativa, malgrado il fastidio che i tedeschi dimostravano dell’offerta italiana.
Mussolini poté così organizzare le divisioni.
Iniziava così la tragedia.
Furono scelte tre divisioni.
Le autotrasportabili “Pasubio” e “Torino” e la divisione celere “Principe Amedeo d’Aosta” a cui vennero aggiunti un gruppo di osservazione aerea e uno di caccia.
Al comando, il generale Francesco Zingales.
I dialoghi che seguono sono frutto di fantasia.
Non i contenuti.
Purtroppo.
Una spedizione che fin dall’inizio si rivelò per quello che tutti sapevano.
Una spedizione suicida, con mezzi inadeguati.
Soldati mandati praticamente allo sbaraglio.
“Duce, le divisioni sono pronte.
Sono 58.000 uomini di truppa, 2.900 ufficiali, 5.500 automezzi, 4.600 quadrupedi, 51 apparecchi da caccia e 10 apparecchi da trasporto”
“Ottimo. Sono partiti?"
“Non ancora Duce. Abbiamo un problema”.
“Sentiamo”.
“Abbiamo due divisione autotrasportate, ma il numero di automezzi non permette che l’autotrasporto di una sola delle due divisioni di fanteria.
Insomma, non abbiamo automezzi sufficienti”.
“E che volete che sia. Andranno a piedi.
Che fa pure bene”.
E proseguendo...
“Ho passato in rivista a Verona le prime unità. Erano perfette. Meglio noi che i tedeschi.
Noi, o meglio, il Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) opererà nelle regioni meridionali dell’Unione Sovietica alle dirette dipendenze dell’11a armata tedesca”.
“Buongiorno Duce. Abbiamo un altro problema. Ricorda che le truppe dovevano passare il Brennero, attraversare l’Austria e l’Ungheria per posizionarsi ai confini?”
“Certo.”
“Uno dei primi convogli si è spezzato in due. Abbiamo i primi feriti. Quindici. E la linea è bloccata
“Duce”.
“Ho capito. Un altro problema. Dimmi”.
“Alla stazione Hutteldorf di Vienna il generale Zingales è stato assalito da febbre e brividi di freddo. I dottori parlano di congestione polmonare.
E’ ricoverato in Ospedale.
Non può raggiungere i suoi uomini.
Va sostituito”.
“Chi abbiamo come sostituto?”
“Il generale Giovanni Messe. Quello che le sta antipatico".
Il generale Giovanni Messe ricevette l’ordine di sostituzione il 13 luglio. Invece di andare Roma per ricevere le direttive andò a Vienna per riceverle direttamente dal generale Zingales.
Ignorando che Zingales non poteva certo parlare, viste le condizioni e la febbre alta.
Messe si recò in ospedale, non riuscì a parlare con Zingales e partì per il fronte senza avere, in quel momento, la minima idea di quali fossero le direttive dello Stato Maggiore.
Le divisioni nel frattempo avanzavano.
La Pasubio con gli automezzi del XXIX autogruppo.
La Celere proseguiva a cavallo.
La Torino purtroppo a piedi.
Percorrerà centinaia di chilometri per raggiungere il bacino del Donez.
Inizierà a piovere. Con le strade ridotte un pantano.
Quando il comando tedesco, che aveva già superato il Dnjester, chiese agli italiani di spingersi lungo la riva del fiume per impedire la ritirata ai sovietici, c’era solo la Pasubio pronta.
Che riuscì comunque a chiudere il ponte Nikolaiev, unica via di fuga per i sovietici.
Ricordate la “Torino” che stava marciando verso Dnjester?
Quando il 28 agosto Hitler invita Mussolini a visitare il fronte russo, la “Torino” è ancora lontana (arriverà solo il 15 settembre).
Fu un’impresa per Messe mettere insieme un reparto da mostrare a Mussolini.
Il primo combattimento è comunque un successo.
Il 28, 29 e 30 settembre, nei pressi di Petrikowka, quando l’azione combinata della “Torino” e della “Pasubio” prendono a tenaglia le truppe sovietiche. Mentre la “Celere” rastrella la sacca.
Migliaia i prigionieri sovietici
Durerà poco.
Dopo pochi mesi cominceranno a mancare i pezzi di ricambio per gli autotrasporti e i cingolati.
Dall’Italia i rifornimenti non arriveranno.
Tutto quello che funziona non è per niente adatto a una guerra di questo tipo.
Di fronte alle 52 tonnellate dei carri armati sovietici schieriamo pochi L3.
Quelli che gli italiani chiamano giocattoli, “modello Upim”.
Per non parlare degli anticarro da 47 che fanno il solletico allo spessore delle corazze sovietiche.
Ma i più grossi ostacoli all’avanzata italiana non saranno i sovietici, che a volte, senza opporre resistenza, si ritireranno per tempo.
Nei mesi successivi i più grossi ostacoli arriveranno dal clima e dalla mancanza di mezzi.
A quelle temperature ogni problema si accentuerà.
Sarà il giornalista Egisto Corradi a scrivere.
“Siamo venuti qua con un parco di autoveicoli adatti al clima italiano. Molti adattati al clima africano. Sotto gli autocarri vengono accesi fuochi per evitare che gelino. Malgrado ciò il gelo rompe catene a cavi d’acciaio”
Tutto gela.
Dal rancio al vino, dall’olio anticongelante che si rapprende, all’acqua.
E poi come muoversi sulla neve senza sci e racchette?
L’avanzata si interromperà a causa prima del fango e poi del freddo.
La tre divisioni continuarono a combattere con la forza della disperazione.
Ormai senza munizioni, senza viveri e con l’acqua razionata gli italiani subiranno gravi perdite e saranno costretti ad arretrare.
“Duce”.
“Dimmi”.
“I nostri uomini hanno subito gravi perdite. Troppo fango e troppo freddo. Hanno mezzi inadeguati. Così è una carneficina.
Hitler insiste per mandare altri uomini, ma sarebbe un massacro. Non è il caso. Lasciamo perdere”.
“Capisco. Armata come suona? Suona bene vero? ”
“In che senso Duce?”
“Manderemo altri 230.000 uomini. L’8ª Armata italiana, e la chiameremo ARMIR, Armata italiana in Russia. Ti piace? Scusa, che stavi dicendo a proposito di un massacro?"
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Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.
Basta sfogliare l’Annuario Pontificio 2023, che include Papa Francesco, per sapere che ci sono stati 266 regni dei pontefici.
Se non l’avete letto vi confiderò un segreto.
Ci sono stati 266 regni dei pontefici, ma non ci sono stati 266 Papi.
Poffarbacco, e come mai?
Perché nell’elenco io compaio ufficialmente per ben tre volte, tutte riconosciute come valide.
Non solo.
Voi pensate che Benedetto XVI sia stato l’unico Papa a dimettersi.
Invece si dimisero anche Clemente I, Ponziano, Celestino, Gregorio XII e…il sottoscritto.
Non solo.
Lo sapevate che nel 1046, caso unico, quattro Papi occuparono contemporaneamente il trono di San Pietro?
Furono Silvestro III, Gregorio VI , Clemente II e…il sottoscritto.
Dimenticavo.
Sono Papa Benedetto IX, nato Teofilatto.