28 ottobre 1940 - Stazione di Firenze.
Era certo della sua contrarietà.
Per questo aveva deciso di comunicargli la notizia in ritardo. A cose fatte. E quale occasione migliore di un incontro già programmato.
Il Duce si avvicinò a Hitler, gli strinse la mano e parlò per primo.
”Führer, stiamo marciando. All’alba di stamane le truppe italiane vittoriose hanno attraversato la frontiera greco-albanese”, gli disse salutandolo.
La faccia di Hitler si alterò digrignando i denti.
Aveva già i suoi problemi, ci mancava anche questo incapace.
“Ma porcaccia la miseria (non so come si scrive in tedesco). Ma sei scemo?” gli disse sottovoce pensando a quello che stava accadendo nell’Africa Settentrionale.
“Hai le truppe (anche queste vittoriose?) ferme a Sidi El Barrani in attesa di rifornimenti da giorni.
Non sei in grado di continuare la marcia sul Cairo verso il Canale, e ti imbarchi in questa nuova avventura?”
Ma cosa hai in testa, segatura?”
“Scusa Adolf, ma anche tu hai invaso la Norvegia. Perché io non posso invadere la Grecia?"
Hitler si toccò i baffetti (e questo era un brutto segno).
“Senti Benito, ma dove hai imparato strategia?
A un corso per corrispondenza?”
“L’invasione della Norvegia significa avere il Mare del Nord e l’accesso libero agli oceani. Di più.
Dal porto di Narvik parte tutto il ferro proveniente dalle miniere della Svezia, indispensabile per la Germania”.
“Ma io se prendo la Grecia ci faccio il triangolo Taranto-Tripoli-Tobruk, e chiudo gli inglesi in un “cul de sac” fra Cipro e Alessandria”.
Hitler si accigliò ancora di più.
Avrebbe voluto mandarlo a fare qualcosa all’inizio “del sac”.
Si trattenne.
E allora il Duce continuò.
“Sì però quando tu prendi qualche iniziativa ti guardi bene dall'avvertirmi".
“Benito, ti avevo già avvisato durante l’incontro scorso al Brennero di non prendere iniziative. Sei di coccio, vedo”.
Poi continuò.
“Politicamente è un errore. Punto.
Dimmi.
Per caso non ti sei accorto che al governo c’è un certo Ioannis Metaxas che ha buoni rapporti con noi e ha instaurato in Grecia una dittatura fascista?”.
“Sì, lo so, però lui tramava con gli inglesi”.
“Hai fatto una caz….ta.
Come dici?
E’ stato Ciano? Con il beneplacito del conte Jacomoni viceré dell’Albania e del generale Visconti Prasca?”.
Certo, come no.
E allora perché hai dichiarato “Do le dimissioni da italiano se qualcuno trova difficoltà a battersi con i Greci?”
Nel frattempo i due erano arrivati a Palazzo Vecchio. Hitler era sempre più arrabbiato.
Bastava guardarlo in faccia.
E lo notarono tutti durante la foto di rito con Mussolini, Ciano e Ribbentrop.
Arrabbiatissimo.
E aveva tutte le ragioni.
Mussolini si era messo in testa di prendere la Grecia quando i suoi a Sidi El Barrani erano bloccati da giorni. Senza nemmeno l’acqua da bere, visto che i camion che la trasportavano si erano insabbiati prima di raggiungere la destinazione.
Tre giorni dopo.
1 novembre 1940. Palazzo Venezia.
“Duce, 55.000 uomini del corpo d’armata Ciamuria del generale Visconti Prasca, 163 carri armati della divisione Centauro e circa 300 bocche da fuoco sono avanzate senza problemi”.
“Ottimo” rispose Mussolini.
“C’è un piccolo problema però”.
Sarà sicuramente piccolo, pensò il Duce.
Aveva predisposto tutto nei minimi dettagli.
La Grecia sarebbe stata sua in pochi giorni, senza colpo ferire.
E così Hitler avrebbe dovuto riconoscere la grande potenza italiana.
“Che problemi, sentiamo”.
“Beh, Duce, aveva detto senza colpo ferire. I greci invece, non si sa come non si sa il perché, hanno cominciato a spararci addosso”
"Diamine, cosa sta facendo la nostra aviazione?” urlò il Duce.
“Duce, maltempo. Non si sono alzati in volo. Forse oggi”
“E le truppe?”
“Duce, si sono fermate. Piove da giorni.
Le strade sono un pantano. I fiumi ingrossati. E tra poco arriverà pure la neve”.
Mussolini si alzò e si avvicinò alla finestra.
Aveva promesso agli italiani una guerra lampo.
Senza colpo ferire.
Dove aveva sbagliato?
Dove aveva sbagliato Mussolini lo sapeva benissimo. Era riuscito a convincere gli italiani che erano una grande potenza militare.
A parole.
Ma i fatti dicevano altro.
Aveva inviato sei divisioni su un fronte di 250 km senza autonomia di fuoco e senza carburante.
Una pazzia.
Se con una possibile espansione verso l’Egitto Mussolini voleva ricalcare i fasti dell’antica Roma, la campagna di Grecia aveva un motivo diverso.
La fine della guerra sembrava vicina e lui voleva sedersi al tavolo dei vincitori con qualcosa di concreto.
Naturalmente il dialogo è frutto di fantasia.
Non certo i fatti descritti, l’assurdità della campagna di Grecia e l’arrabbiatura di Hitler.
Mussolini non fu solo un feroce dittatore, un economista scarso e un cattivo amministratore, ma anche un pessimo stratega.
Hitler non dimenticherà mai “il deplorevole sbaglio”, come lo chiamava.
Lo sappiamo dalle memorie del suo interprete e segretario Paul-Otto Schmidt.
La ragione della contrarietà era molto semplice.
Mussolini non aveva la forza d’urto per prendere la Grecia in pochi giorni.
E una guerra prolungata avrebbe portato gli inglesi padroni dei mari a sbarcare nelle isole e nel Peloponneso. Hitler avrebbe preferito che Mussolini avesse usato quelle sei divisioni per scacciare gli inglesi dall’Africa Settentrionale invece di imbarcarsi in una nuova avventura
Invece lo aveva fatto.
Scombinando tutti i suoi piani.
AI primi di marzo, furioso per dover rimandare la Campagna di Russia, sarà costretto a posizionare le sue truppe in Bulgaria per attaccare la Grecia in aiuto del suo alleato.
La campagna di Grecia mise fine alle pretese italiane di fare la guerra senza i tedeschi.
Quella che doveva essere un guerra lampo costò all’Italia 14.000 morti, 50.000 feriti, 12.000 congelati, 4.000 dispersi e 21.000 prigionieri (liberati dopo l’intervento tedesco).
Una fotografia vale più di mille parole.
Ed esiste una fotografia che meglio rappresenta quello che eravamo? Esiste.
L’automobile in panne.
Mussolini che la spinge, con in piedi il generale Ugo Cavallero.
25/12/1940 - Palazzo Venezia.
Ciano guardò fuori dalla finestra la neve che stava scendendo copiosa su Roma.
“Chissà i nostro poveri soldati in Grecia”, disse Ciano.
“Meglio se i deboli muoiono. Rimarranno solo quelli forti. E si migliorerà la razza italiana”, rispose il Duce.
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Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema.
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni.
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali.
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.