Me lo ricordo bene quel 5 maggio 1938.
Era una bella giornata di sole.
Ai lati di Via Caracciolo, sul lungomare, c’era un sacco di gente in attesa del suo passaggio.
Ad un tratto l’auto scoperta avanzò tra le due ali di folla e lui, il Fuhrer, si alzò in piedi.
Ricordo ancor meglio la voce di uno sconosciuto che ruppe il silenzio della cerimonia, quando Hitler tese il braccio nel classico saluto nazista.
“Sta verenn’ si for’ chiove” (sta controllando se fuori piove)”.
E la gente scoppiò in una fragorosa risata.
Perché noi napoletani, in quanto a ironia e capacità di non prenderci troppo sul serio, non ci batte nessuno. Non solo.
Ditemi voi dove Mussolini, definito ‘nu pagliaccio“ dal Vate, poteva farsi fotografare con una rosa in bocca, se non davanti al mare di Napoli.
Era il 1938, e tra poco Mussolini, “lo scimunito”, ci avrebbe portato in una guerra infame.
E noi, a ogni disgrazia una canzone.
Come il 28 marzo del 1943 quando la Caterina Costa, una nave carica di armamenti bellici, saltò in aria nel Porto di Napoli.
Seicento i morti. Tremila i feriti.
E il nostro grido di rabbia sfociato sul ritornello di "Napule ca se ne va".
Dopo pochi mesi, “chesta storia ha fa fernì!”, divenne realtà.
Tutto ebbe inizio il 27 settembre 1943. Aveva piovuto fino all’alba, poi era tornato il sereno. Alcuni giovani napoletani, rifugiatisi nel cascinale del Pagliarone per sfuggire alle retate ormai quotidiane dei tedeschi, uscirono all’aperto. Fu allora che le videro in lontananza.
Decine di navi stavano avanzando nel braccio di mare davanti a Napoli.
“Gli americani, gli americani!!!”.
E via di porta in porta, di strada in strada l’urlo di liberazione. Potevano aspettare lo sbarco?
Attendere gli americani?
Mai.
A Napoli la Resistenza era già cominciata giorni prima, subito dopo l'armistizio.
Con alcune manifestazioni studentesche già il 1º settembre in piazza del Plebiscito e le prime assemblee nel Liceo Classico «Sannazaro» al Vomero. Poi, subito dopo, le prime azioni armate.
I primi scontri il 9 settembre, al Palazzo dei Telefoni. Poi il 10 settembre tra piazza del Plebiscito e i giardini del Molosiglio. E poi l'11 settembre alla Riviera di Chiaia. E il 12, con l’eccidio a piazza Bovio e la fucilazione di Andrea Mansi, per anni il “Marinaio ignoto”.
A Napoli i soldati italiani erano allo sbando per mancanza di ordini dai comandi militari. Con oltre 20.000 tedeschi in giro, la fuga in abiti borghesi dei generali Riccardo Pentimalli ed Ettore Deltetto non aveva certo aiutato. Era stato il caos. Ma ora eccole le navi americane.
Ma i napoletani vogliono consegnare una città già liberata.
Anche perché le navi sono ferme, bloccate dalle mine.
La prima fucilata contro i tedeschi venne sparata al Vomero in Via Belvedere (dal Vomero verrà sparata anche l’ultima).
E’ l’inizio delle Quattro Giornate.
Al Vomero vecchio erano stati una ventina di uomini, armati alla bell'e meglio, a insorgere.
Alla loro guida un popolano noto come “O baccalaiuolo”, (venditore di merluzzo secco).
Furono due tedeschi in sella ad una moto i primi a cadere.
Poi altri spari. Prima in Via Cimarosa, poi in Via Scarlatti e in Piazza Vanvitelli.
Lo scopo? Attaccare i tedeschi per prendere loro le armi.
Le voci di insurezione arrivarono al comando tedesco, dislocato nel campo sportivo del Littorio usato come campo di concentramento.
Un rastrellamento punitivo fu la prima risposta del maggiore Sakau.
“I napoletani la devono smettere di spararci addosso”. E così i tedeschi iniziarono a sparare a casaccio contro i palazzi.
Furono sei le prime vittime civili.
Anche un ragazzo, il cui nome rimarrà sconosciuto.
Poi ci fu un vero e proprio rastrellamento.
Uno dei tanti. Ma la Resistenza vuole combattere.
A organizzarla, al Liceo Sannazaro, saranno il professore Antonino Tarsia in Curia e il pittore Eduardo Pansini.
Al comando. il capitano Vincenzo Stimolo, detto “Enzo”.
E’ questo gruppo che intima ai tedeschi di liberare i prigionieri. Il temuto comandate Walter Scholl si trova all’Hotel Parco.
Lui a dare l’ordine di consegnare tutte le armi, il copri-fuoco, la distruzione delle fabbriche, e la chiamata al servizio obbligatorio per certe classi
Scholl, rendendosi conto di non poter difendere il Vomero, decise di ripiegare.
Dopo aver liberato gli ostaggi.
Niente male per i patrioti napoletani in così poco tempo.
Ma altre forze tedesche sono attestate nella Conca di Agnano.
Per quello i partigiani hanno organizzato un posto di guardia sulla strada della Pigna.
Dentro ci sono cinque patrioti.
Il tenente Giovanni Abbate, il soldato Celestino Sardu, il marinaio Mario Sepe, il vigile del fuoco Francesco Pintore e il civile Bruno Bonfiglio.
Sono loro a sentire per primi quel ronzio di motori. Dall’ultima curva apparve una colonna motorizzata composta da dodici autoblinde, un cannone anticarro e un carro armato.
Davanti, un’auto e una motocicletta.
Uno scontro impari.
Con una sola mitragliatrice rubata ai tedeschi, quattro moschetti e otto bombe a mano, quei pochi uomini riuscirono a bloccare i tedeschi.
La città è in ginocchio per i bombardamenti, ma la rabbia dei napoletani cresce sempre di più.
In tutta la città sorgono barricate.
La reazione è tremenda e molti giovani napoletani cadono sotto il fuoco tedesco.
Tra questi lo studente Adolfo Pansini, vent’anni, figlio del pittore.
Arrivano i rinforzi e i tedeschi si ritirano portando con loro alcuni prigionieri.
Verranno fucilati poco dopo.
Ormai la rivolta dilaga.
A Capodimonte, al Vasto, a Foria e a Chiaia. Nella zona del Museo la battaglia più dura. Sono gli scugnizzi a portare ai partigiani le armi rubate ai tedeschi. Al Materdei e in difesa del Ponte della Sanità, c’è lei, l’operaia Maddalena Cerasuolo. Armata
Dopo 4 giorni di combattimenti verrà consegnata alla V Armata una città liberata.
168 vittime in combattimento, 140 quelle civili, 19 morti mai identificati, 162 feriti, 75 invalidi permanenti.
Napoli, la prima tra le grandi città europee a insorgere contro l'occupazione tedesca
A questo punto avrei dovuto ringraziare chi mi ha chiesto di raccontare le “Quattro giornate” di Napoli. Lo faccio sempre, com’è giusto.
Purtroppo non sono riuscito a ritrovare il tweet di chi mi ha suggerito di raccontare quei giorni.
Me ne scuso.
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Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.
Basta sfogliare l’Annuario Pontificio 2023, che include Papa Francesco, per sapere che ci sono stati 266 regni dei pontefici.
Se non l’avete letto vi confiderò un segreto.
Ci sono stati 266 regni dei pontefici, ma non ci sono stati 266 Papi.
Poffarbacco, e come mai?
Perché nell’elenco io compaio ufficialmente per ben tre volte, tutte riconosciute come valide.
Non solo.
Voi pensate che Benedetto XVI sia stato l’unico Papa a dimettersi.
Invece si dimisero anche Clemente I, Ponziano, Celestino, Gregorio XII e…il sottoscritto.
Non solo.
Lo sapevate che nel 1046, caso unico, quattro Papi occuparono contemporaneamente il trono di San Pietro?
Furono Silvestro III, Gregorio VI , Clemente II e…il sottoscritto.
Dimenticavo.
Sono Papa Benedetto IX, nato Teofilatto.
Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/4j4VsUB
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline.
Con quei bei cannoni tutti neri.
Il morale alto.
Pronto a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli".
Il primo sparo?
Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer.
Resistemmo fino all’impossibile.
Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata.
Un durissimo colpo
(Bragation morirà il 12 settembre)
“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino.
Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so.
Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli.
Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi.
Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta.
Con strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.