Ho dedicato la mia vita alla cura del cervello.
E per un paradossale scherzo del destino ho chiuso la mia vita il 3 marzo 2018 muovendomi a fatica, rallentato da tempo dal Morbo di Parkinson.
Orgoglioso del premio conferitomi dall’Accademia americana di neurologia.
In verità non ho mai smesso di “correre”, portando i miei quattro figli ogni mattina a fare jogging al Kensington Gardens di Londra.
Perché correre mi era servito a cambiare un’epoca.
A dimostrare al mondo che “il cervello, se si mette correre, è imbattibile”.
Sono nato ad Harrow, in Inghilterra.
Dopo la scuola elementare ho continuato la mia formazione alla City of Bath Boys School e alla University College School di Londra.
La mia era una famiglia di lavoratori e io volevo studiare medicina.
Impossibile, visti i costi.
I miei genitori non potevano certo pagarmi gli studi, ma io all’università di Oxford ci andai ugualmente, perché scoprii di avere talento e molta resistenza per la corsa.
Mi bastò un piccolo sforzo per vincere una borsa di studio di atletica.
Lo studio era per me la cosa più importante, ma la stampa si accorse di me.
Rifiutai di competere nelle Olimpiadi del 1948, mentre accettai di partecipare a quelle del 1952 ad Helsinki.
Con la convinzione di vincere l’oro nei 1500.
Io, Roger Bannister, atleta britannico.
Fu una grande delusione invece.
Finii quarto, e fuori dal podio.
Ero così deluso che fui sul punto di mollare tutto.
Ma presi una decisione.
Avrei fatto qualcosa mai fatto prima: provare al mondo intero, agli scienziati e ai medici dell’epoca, che avevano torto.
Nel 1940 il record di corsa sul miglio (1609,344 metri) era superiore ai 4 minuti.
Medici e scienziati erano convinti che un essere umano non sarebbe stato in grado di percorrere un miglio in meno di quattro minuti.
Per questo nessuno ci aveva mai seriamente provato.
Perché convinti che il muro dei 4 minuti fosse un muro insuperabile.
Ma io ero certo fosse solo una questione di testa.
Che sarebbe bastato convincere il cervello più che le gambe.
Anche se ero solo uno studente di 24 anni a sei settimane dalla sospirata laurea in medicina.
E lavorai sulla testa prima che sul corpo.
Poi col tempo migliorai la resistenza trascorrendo giornate intere in montagna.
Sottoponendomi a prove di forza inaudite.
Scalando vette e applicando tabelle di allenamento al limite della sopravvivenza.
Fino al fatidico giorno, il 6 maggio 1954.
Il tentativo era previsto nel tardo pomeriggio, quindi trascorsi la mattinata studiando e con le solite ore di tirocinio al Paddington Hospital.
Ero poi andato nel laboratorio dell’ospedale per arrotondare le punte delle mie scarpe da corsa.
Le grattai pure con della grafite per migliorarne l’aderenza con il terreno.
Uno specializzando mi prese pure in giro: “Non penserai che faccia qualche differenza, vero?”
Gli esperti avevano concluso che per avere qualche possibilità di fare il record serviva una giornata senza vento, con circa 20 gradi Celsius di temperatura, su una pista di argilla secca e dura.
Infatti era così.
Insomma. Più o meno.
Vabbé, diciamo più meno che più.
Infatti quel giorno, sulla pista di Iffley Road ad Oxford, tirava vento, faceva freddo e il fondo era bagnato.
In attesa del treno venni quindi assalito da mille dubbi.
Non ero più tanto convinto.
Fortunatamente sul treno incontrai un mio vecchio allenatore, Franz Stampfl
Fu lui a convincermi.
“Sempre meglio avere rimorsi piuttosto che rimpianti” mi disse.
Alle 6 del pomeriggio, con il vento in calo, dissi: ”Sono pronto, facciamolo.
In fondo devo solo migliorare di 2 secondi il record mondiale dello svedese Haegg, 4'01"4, che dura da 9 anni”.
I medici mi avevano ripetuto che il cuore avrebbe ceduto.
"Ma io studiavo neurologia e sapevo che per abbattere un limite l'organo più importante era il cervello".
Fu comunque durissima.
“All'arrivo svenni e quasi non ci vidi più, non avevo più voglia di vivere".
Sentii il commentatore sportivo che lavorava per la BBC, Norris McWhirter, (sì, proprio lui, che con il fratello Ross curerà l’anno successivo la prima edizione del Guinness dei primati) dire: "Signore e signori, il tempo è di 3'...”.
Senza riuscire a finire la frase.
Perché la gente cominciò ad urlare come impazzita.
Quella barriera sul miglio era finalmente caduta.
Un uomo aveva corso la distanza sotto i quattro minuti.
Il tempo?
Esattamente 3'59"4
Avevo dimostrato una cosa.
Spesso ci fermiamo di fronte ad ostacoli che noi stessi ci poniamo. O ci impongono altri.
Troppo difficile quel lavoro, quello studio, quel percorso.
E quindi insormontabili, da non provarci nemmeno.
Invece spesso è solo un limite che non esiste.
Non siete convinti? Eppure è così.
Dopo aver dimostrato che quel limite si poteva superare, altri atleti ci provarono. Risultato?
Quarantasei giorni dopo, l’australiano John Landy portò il limite a 3'57"9 e negli anni successivi molti altri corsero sotto i 4 minuti.
Incontrai in pista John Landy a Vancouver tre mesi dopo.
Quel giorno io ero influenzato, Landy invece aveva una ferita al piede dopo aver calpestato una lampada di un fotografo.
Una gara memorabile.
Vinsi in 3’58”8.
E anche Landy finì sotto i 4 minuti.
Fu la mia ultima gara.
Dopo quella corsa mi ritirai per dedicarmi all’attività che amavo: la neurologia.
Le scarpe dell'impresa del record?
Vendute all’asta per 266.500 sterline destinate all’Autonomic Charitable Trus, associazione di ricerca neurologica.
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Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema.
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni.
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali.
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.