Durante i miei anni all’Università, al Pasadena Junior College e alla UCLA, eccellevo in sport come l’atletica e il football.
Infatti quando abbandonai l’Università andai a Honolulu per giocare a football con la squadra semiprofessionista degli Honolulu Bears.
Mi ero trasferito alla UCLA dopo la morte in un incidente in moto di mio fratello, per restare vicino alla mia famiglia.
Fui il primo atleta a qualificarmi in quattro sport (baseball, football, basket e corsa su pista).
Fu lì che incontrai la mia futura moglie, Rachel Islam.
Avete presente la finale dei 200 metri alle Olimpiadi di Berlino del 1936?
Lo so, sapete tutti che a vincere fu Jesse Owens.
Ma sapete chi arrivò secondo?
Ve lo dico io.
Il mio fratellone, Matthew Robinson, detto Mack.
Mi chiamo Jack Robinson, detto "Jackie, nato il 31/01/1918 in Georgia (Usa).
Nel 1942 mi arruolai nell’esercito. Mai visto un nemico. In compenso mi mandarono davanti alla corte marziale. Con un’accusa gravissima. Non avevo obbedito all’autista che mi intimava di sedermi dietro.
Sì, perché io ero nero, che più nero non si può, e i neri dovevano stare separati dai bianchi.
Naturalmente fui assolto da quella “tremenda accusa” perché sugli autobus militari non vigeva l'obbligo di separazione tra neri e bianchi come su quelli civili.
Alla fine della guerra accettai l’offerta dei Monarchs, squadra della Negro League, il campionato per afroamericani.
Se volevi giocare nel baseball professionale, ed eri nero, quello solo potevi fare. Dal 1890, per le leggi di Jim Crow, il baseball professionale era “white only”
Giocavo bene, e quella lega mi stava stretta.
Poi accadde qualcosa di straordinario.
Rickey Branch, presidente e manager dei Brooklyn Dodgers, al grido di “Il baseball è bianco, gli spettatori sono neri, ma i soldi sono verdi”, mi chiamò per giocare nella sua squadra.
Fu allora che successe il finimondo.
Nel 1946 nella Major League Baseball giocavano 400 atleti, tutti bianchi.
A parte il mio allenatore, Leo Durocher, nessuno mi voleva.
“Ma come, noi bianchi non giochiamo coi neri dal 1890 e questo vuole giocare con noi?"
Perché Branch aveva scelto me?
Non voleva solo doti atletiche, Josh Gibson era più bravo di me.
No, lui voleva un nero capace di resistere alle manifestazioni di razzismo fuori e dentro il campo.
«Sto cercando un giocatore nero con abbastanza coraggio da non reagire», mi disse.
Vi garantisco che fu dura. Anzi durissima.
Mi mise alla prova facendomi giocare prima nei Montreal Royals, squadra affiliata ai Dodgers.
“Negro negro negro negro negro” mi urlavano continuamente.
E non era certo un complimento.
Non bastarono le minacce alla mia famiglia (avevo sposato Rachel nel 1946), non bastarono gli insulti e il dover viaggiare in autobus.
Non bastarono i rifiuti degli alberghi di ospitare un nero, ci si misero anche i miei compagni di squadra, firmando una petizione per escludermi
«Non m’importa se il ragazzo è giallo o nero, o se ha le strisce come una zebra. Io sono il manager di questa squadra e dico che lui gioca". Inoltre, c’è dell’altro: questo ragazzo ci può rendere tutti ricchi. E se qualcuno di voi non ha bisogno di soldi, farò in modo di cedervi"
A dire queste parole fu il mio allenatore, Leo Durocher.
La petizione fu ritirata, e io esordii nella Major League del Baseball il 15 aprile 1947 all’Ebbets Field di Brooklyn davanti a ventitremila spettatori.
Il mio numero?
Il 42.
Tutti mi attaccavano. Tutto mi respingeva.
Amavo quella maglia, ma dagli spalti piovevano solo urla, sputi e insulti.
Persino dagli allenatori avversari.
Come Ben Chapman, coach dei Philadelphia Phillis.
Il 22 aprile 1947 mi lanciò offese per tutto l’incontro.
«Torna tra i campi di cotone. Non sei degno di portare un numero sulla maglia». Mi urlava continuamente. E poi giocatori di alcune squadre minacciarono di scioperare se avessi giocato.
Diventai anche il bersaglio del gioco duro di molti avversari.
Ma poi ci pensò Pee Wee Reese
Era un grande giocatore e compagno di squadra.
Durante una partita a Cincinnati, per rispondere agli ennesimi insulti alla mia persona, mi venne vicino in campo e mi mise un braccio sulle spalle.
«Puoi odiare un uomo per molte ragioni. Il colore non è una di queste», diceva.
E io tenni duro. Con prestazioni straordinarie.
Piano piano il baseball professionista aprì le porte ad altri giocatori afroamericani, come Satchel Paige, Willie Mays e Hank Aaron.
Avevo vinto, malgrado tutto.
Mi ritirai nel 1957, a 38 anni, con il diabete che mi tormentava.
Il 24 ottobre 1972 me ne sono andato per un attacco di cuore all'età di 53 anni. Sepolto vicino a mio figlio Jackie Jr. Nel 1973 mia moglie Rachel ha fondato la Jackie Robinson Foundation, un'organizzazione impegnata nella promozione di programmi di scolarizzazione per i bambini
Quanto sia stato grande Jackie Robinson non lo dicono solo i numeri.
E non è solo per quei numeri che il 42, il suo numero, è l'unico numero ritirato d'ufficio da tutte le squadre di Major League. Tutte.
Ma con una eccezione.
Il 15 aprile di ogni anno, il giorno del suo debutto, è stato istituito il Jackie Robinson Day, in cui TUTTI i giocatori indossano il suo numero, il 42.
Questo la dice lunga su quanto sia stato importante questo giocatore per la storia americana in generale.
Jackie Robinson ha dimostrato che anche solo una persona può fare una grande differenza.
Che anche solo una persona può rendere un Paese, un Paese migliore.
Partendo da una certezza.
«Puoi odiare un uomo per molte ragioni. Il colore non è una di queste»
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Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema.
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni.
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali.
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.