Mia madre era bellissima.
Ero nato quando lei aveva all'incirca 18 anni, almeno così mi è stato detto.
Era tanto bella che persino Renoir l'aveva usata come modella.
Non lo dico perché era mia madre, ma lei era una bravissima pittrice.
Modella per Edgar Degas, Henri de Toulouse-Lautrec, Pierre-Auguste Renoir e Pierre Puvis de Chavannes, proprio posando per loro era riuscita ad apprendere le loro tecniche.
Ero venuto al mondo il 26 dicembre 1883 a Parigi col nome di Maurice.
So che mio padre era un pittore catalano, Miquel Utrillo. Almeno così disse mia madre.
Qualcuno però racconta che dopo la mia nascita lei vagò di studio in studio alla ricerca del presunto padre.
Renoir le rispose: “Non può essere mio, ha un colore orribile!”
Anche Degas non fu gentile: “Non può essere mio, ha una forma terribile!”.
Invece il pittore catalano Miquel Utrillo le disse: "felice di dare il mio nome ad uno dei lavori di Renoir"
So che oggi mi chiamate "il pittore di Montmartre". Già. E come volevate chiamarmi visto che sono nato proprio a Montmartre?
Ricordo che i bambini del quartiere mi chiamavano "Litrillo".
Vi garantisco che non era colpa mia.
La colpa era di mia nonna.
Vivevo con lei e ogni volta che avevo una crisi epilettica. io ne soffrivo parecchio, lei non trovava di meglio che darmi un bicchiere di vino.
Purtroppo quelle crisi erano pure frequenti.
E la cosa, vi garantisco, non mi aiutò molto.
Anche perché, nel frattempo, mia madre era troppo presa a soddisfare i suoi clienti per prendersi cura di me.
E così passai la mia adolescenza girando tra gli ospedali per curare le mie crisi, la mia pazzia e la mia dipendenza dall'alcool.
Fu comunque mia madre, su consiglio dei medici, ad incoraggiarmi a dipingere, impartendomi i primi rudimenti del disegno e della pittura.
E posso dire che quella cura ebbe i suoi effetti positivi.
Passavo intere giornate a dipingere le strade di Montmartre.
Le mie opere si caratterizzano per le tonalità chiare e gessose, per le vie quasi sempre deserte e per la vena malinconica.
Almeno così dicono i critici.
Dicono che i miei quadri hanno una vena malinconica. Forse per le mie strade sempre deserte, rare a Parigi.
Avrei voluto vedere loro con un'infanzia come la mia.
Sempre solo, e con una nonna che ti riempiva grossi bicchieri di vino rosso.
I miei quadri li firmavo sempre "Maurice Utrillo V".
V come Valadon la mia amatissima madre.
Il successo arrivò tardi. Come l'amore.
A 52 anni sposai Lucie Valore, una vedova più grande di me. Non credo mi amasse veramente perché in breve tempo mi derubò di tutti i miei averi.
Vecchio, pazzo e malato, dipingevo paesaggi visti dalla finestra o da cartoline, non essendo più in grado di lavorare all'aria aperta.
Stavo sempre rintanato nella camera che vedete nella foto.
Oggi qualcuno ci chiama il "maledetto trio di artisti di rue Cortot a Montmartre".
Presumo si riferiscano a me, Maurice Utrillo, a mia madre Suzanne Valadon e a lui, quello al centro della foto, André Utter.
Mia madre lasciò il marito proprio per lui, il bel André, un pittore di 23 anni, che alla fine sposò pure.
Quell'unione durò quasi 30 anni immortalata in una tela di mia madre, Adamo ed Eva, nella quale André è Adamo mentre mia madre Suzanne è Eva.
Malgrado i mille problemi sono vissuto fino a settantadue anni.
Sono infatti morto il 5 novembre del 1955.
Naturalmente solo, come quando era venuto al mondo.
Se volete farmi visita sono Maurice Utrillo, sepolto nel Cimitero di Saint-Vincent, a Parigi.
Se passate dalla mia tomba mi raccomando, fate esattamente quello che ormai fanno tutti.
Sostituite l'acqua dei fiori con un buon bicchiere di vino.
E' vero, ero malato, pazzo e alcolizzato, ma per voi rimarrò per sempre Maurice Utrillo, il figlio di Montmartre.
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
Ieri vi ho raccontato della decimazione subita dal “Battaglione Catanzaro”.
(leggete qui bit.ly/3DnuYKO)
Quella storia la conosciamo grazie a un documento della relazione della regia Commissione d’inchiesta su Caporetto, costituita il 12 gennaio 1918.
Il Presidente era Carlo Caneva, senatore del Regno, che denunciò: “quel provvedimento selvaggio[…] della decimazione applicata ad interi reparti, fra i cui componenti si trovavano numerosi innocenti…ci fu un caso dove fu estratto a sorte un soldato lontano parecchi chilometri”.
Ma non furono solo le decimazioni il segno distintivo di Luigi Cadorna.
Fu la sua condotta della guerra, tutta imperniata su quelle che lui chiamava “spallate”.
Un assalto alla baionetta contro le postazioni nemiche, sempre munitissime di mitragliatrici e artiglieria.
Eravamo solo stanchi. Troppo stanchi. Distrutti nel corpo e nella mente.
E’ vero, ci siamo ribellati a quell’ordine, ma non ci meritavamo quella punizione.
Lo diceva la nostra storia, le nostre battaglie, il nostro coraggio.
Chi siamo? Una lunga storia.
Iniziata a Catanzaro.
A Catanzaro Marina per la precisione.
In tema di arruolamento c’erano da sempre due scuole di pensiero.
I politici preferivano che l’arruolamento fosse nazionale.
Lo scopo era quello di amalgamare i giovani provenienti da tutte le zone d’Italia.
I militari invece preferivano un reclutamento regionale. Secondo loro, cultura e lingua parlata, portavano alla formazione di reparti più omogenei.
In tempo di pace prevalse la prima, ma quando si fece sentire il rumore della guerra si preferì la seconda.
Durante i miei anni all’Università, al Pasadena Junior College e alla UCLA, eccellevo in sport come l’atletica e il football.
Infatti quando abbandonai l’Università andai a Honolulu per giocare a football con la squadra semiprofessionista degli Honolulu Bears.
Mi ero trasferito alla UCLA dopo la morte in un incidente in moto di mio fratello, per restare vicino alla mia famiglia.
Fui il primo atleta a qualificarmi in quattro sport (baseball, football, basket e corsa su pista).
Fu lì che incontrai la mia futura moglie, Rachel Islam.
Avete presente la finale dei 200 metri alle Olimpiadi di Berlino del 1936?
Lo so, sapete tutti che a vincere fu Jesse Owens.
Ma sapete chi arrivò secondo?
Ve lo dico io.
Il mio fratellone, Matthew Robinson, detto Mack.
Ieri (leggete qui bit.ly/3qVzR95) vi ho raccontato dell’affondamento del transatlantico Laconia e del disperato tentativo di salvare tutte quelle persone disperate.
Sì, sono stato io ad affondarlo. Mi chiamo Werner Hartenstein, comandante del sommergibile tedesco U-156.
Ricordo che tirai un sospiro di sollievo. Certo, avevo affondato un transatlantico che trasportava prigionieri italiani, nostri Alleati, ma avevo fatto tutto il possibile per rimediare.
Il sollievo durò poco.
Perché, come vi ho raccontato, quel rumore era inconfondibile.
Il rumore di un bombardiere americano B-24 del tipo Libertador. Aveva ascoltato i messaggi radio che avevo inviato. Non sapevo che intenzione avesse. Sapeva che era in corso un’operazione di salvataggio? Avevo poco tempo. Feci stendere sul cannone del sommergibile una bandiera.
Diario di bordo, 8 marzo 1943.
Siamo appena stati colpiti dalle bombe di profondità lanciate da un aereo americano, un PBY Catilina, e ci stiamo inabissando.
I miei uomini hanno giurato da tempo di seguirmi fino in capo al mondo.
E’ ciò che sta accadendo.
E mi dispiace.
La guerra è qualcosa di crudele, come mai avrei immaginato, dopo quello che successe quel giorno.
Da allora sono cambiato.
Non sono più il comandante di un tempo, cinico e spietato.
Mi chiamo Werner Hartenstein, comandante del sommergibile tedesco U-156.
Mi chiedo se ne sia valsa la pena.
Morire a soli 35 anni, intendo.
Come ho fatto a non capirlo prima.
Perché c’è voluto quel maledetto giorno per farmi capire quanto sia assurda la guerra.
Abbiamo aria a sufficienza per potervi raccontare quel giorno nefasto.
Ho dedicato la mia vita alla cura del cervello.
E per un paradossale scherzo del destino ho chiuso la mia vita il 3 marzo 2018 muovendomi a fatica, rallentato da tempo dal Morbo di Parkinson.
Orgoglioso del premio conferitomi dall’Accademia americana di neurologia.
In verità non ho mai smesso di “correre”, portando i miei quattro figli ogni mattina a fare jogging al Kensington Gardens di Londra.
Perché correre mi era servito a cambiare un’epoca.
A dimostrare al mondo che “il cervello, se si mette correre, è imbattibile”.
Sono nato ad Harrow, in Inghilterra.
Dopo la scuola elementare ho continuato la mia formazione alla City of Bath Boys School e alla University College School di Londra.
La mia era una famiglia di lavoratori e io volevo studiare medicina.
Impossibile, visti i costi.