La fate facile voi.
«Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo, ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso».
Averlo saputo prima non saremmo certo partiti quel giorno. Io e il mio amico, intendo.
Saremmo rimasti nel nostro Paese, il Ghana, a spaccarci la schiena lavorando 10 ore al giorno nelle miniere d’oro per mettere un pezzo di pane sotto i denti.
Il Ghana allora, nel 2002, era uno dei maggiori produttori d’oro al mondo.
Qualcuno di voi è mai venuto a controllare che in violazione delle leggi Internazionali molti bambini ghanesi lavorano e muoiono ancora oggi nell’estrarre l’oro?
Sapete che il nostro Paese per la quantità di miniere d’oro veniva chiamato “Gold Coast”?
E che la maggior parte di queste nostre risorse, e ripeto nostre risorse, sono state polverizzate dai voi colonizzatori europei?
Venite voi in Ghana ad insegnare ai bambini come possono fare grande il loro Paese.
Quando sei povero e hai poco da mangiare, hai a malapena la forza di stare in piedi.
Quale futuro avevamo noi ragazzi.
È per quello che abbiamo deciso di partire quel giorno.
Comunque, inconsapevolmente, un vostro consiglio lo avevamo seguito.
Non eravamo saliti su una di quelle barchette pericolose, ma su un aereo. Una figata.
Certo, il posto non era proprio da prima classe, ma vi assicuriamo che non c’era di meglio.
E poi è andata a finire così.
Oggi è il 5 dicembre 2002 e siamo arrivati in Inghilterra finalmente, la nostra terra promessa.
Vabbè, diciamo che Mosè poté almeno vederla quella terra, anche se da lontano.
Noi nemmeno quello.
Questa terra promessa abbiamo potuto solo immaginarla durante il viaggio.
Sì, perché se è vero che siamo arrivati in Inghilterra il medico ha appena dichiarato che siamo morti.
D’ipotermia.
Chissà lo spavento che ha provato quel povero manutentore che, mentre controllava l’aereo appena atterrato, ha scoperto la nostra presenza nel vano carrello.
Comunque.
Io ho dodici anni, o meglio, avevo dodici anni e indosso un paio di jeans Levis un po' lunghini, tanto da doverli arrotolare sulle caviglie, una maglietta colorata e una giacchetta grigia.
Certo, i sandali con l'alluce di fuori non sono il massimo, su questo concordo.
Il mio amico, che di anni ne aveva quattordici, ha una polo blu a maniche corte, pantaloni a righe di diversi colori, e scarpe da jogging grigie, tipo Nike (solo tipo però) con la scritta "peacock", che vuol dire pavone.
Praticamente due figurini, dai.
Certo, due figurini che non avevano calcolato che un aereo di linea in volo può raggiungere e superare gli 11.000 metri di quota e che a quella distanza da terra la temperatura esterna arriva a 50-55 gradi sotto zero.
È così che siamo morti.
Adagiati in terra sotto l'aereo ci hanno svuotato le tasche.
Un portafogli vuoto, due cartoline d'auguri stampate da una compagnia aerea del Ghana e un vecchio lucchetto.
Cose inutili, lo so, ma è tutto ciò che avevamo quando siamo partiti per raggiungere l'Europa.
Il motivo?
Sempre lo stesso.
Ricordate la storia di Yaguine Koita e Fodè Tounkara?
Sì, quelli partiti nell'agosto del 1999 dalla capitale della Guinea e ritrovati morti a Bruxelles nel vano carrello di un aereo?
Quei due ragazzi avevano una lettera in tasca per i potenti d'Europa.
Leggetela.
Ecco, siamo morti per lo stesso motivo.
Solo che noi non avevamo nessuna lettera per i potenti.
A che sarebbe servito scriverla?
È forse servita la lettera dei nostri fratelli Yaguine Koita e Fodè Tounkara?
Ve la siete dimenticata in fretta. Senza fare niente.
Mi dispiace solo di una cosa.
Il medico legale ha dichiarato che siamo "neri" (quello era facile dai), ma ben nutriti, quindi forse siamo finiti nel vano carrello per un gioco.
Siete dei fenomeni.
Secondo voi se uno è nero e ben nutrito non può cercare un futuro migliore?
Allora vi svelerò un segreto.
In questo mondo ci sono tante, troppe disuguaglianze.
Però c’è una cosa che accomuna molti ragazzi come noi, neri, bianchi, africani, asiatici, americani o europei.
Quella di non avere un futuro.
Quindi datevi una mossa.
Ma se proprio non avete una soluzione lasciateci almeno la speranza, almeno quella.
Pure con qualche forma di pazzia dovuta alla disperazione.
Come attraversare un deserto, o il mare su una carretta.
O entrare in un vano carrello di un aereo, alla ricerca di un futuro migliore.
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“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino.
Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so.
Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli.
Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi.
Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta.
Con strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
Ieri Johannes ha dato voce ad Alexander Selkirk, il pirata la cui storia, secondo alcuni, è la stessa raccontata da me nel libro “Robinson Crusoe”.
(Leggete qui )
Non è così.
Per cui ritengo giusto portare alla vostra conoscenza la mia versione. bit.ly/4k5qo81
E’ vero, andai da Alexander per sentire dalla sua voce quella storia che girava ormai da anni.
I suoi quattro anni e quattro mesi passati sull’isola Juan Fernández.
Il mio Robinson è quindi Alexander Selkirk?
Una definizione avventata, e in quanto tale, assolutamente inesatta.
Come avrete capito mi chiamo Daniel Defoe.
E vi farò una confessione.
Dalla vicenda di Alexander, che avevo conosciuto attraverso gli scritti di Rogers e dello Steele, e approfondita durante l’incontro con lo stesso Alexander, ho preso solo lo spunto.
Nulla più.
Fui sicuramente uno dei primi a leggere quel romanzo, uscito esattamente il 25 aprile 1719.
E non potei fare a meno di rilevare un sacco di inesattezze.
Per me era chiaro.
Quello che lo aveva scritto non aveva mai vissuto ai tropici.
C’erano un sacco di errori e imprecisioni.
Come quel personaggio inseguito dai selvaggi che non sapeva nuotare.
Assurdo.
E cosa dire del protagonista che, in un’isola del Sudamerica, si era messo a costruire una palizzata per proteggersi dalle bestie feroci?
Altra assurdità.
E poi foche, pinguini, alle foci dell’Orinoco.
A quei tempi ero sottotenente sulla nave Weymouth della marina di S.M. britannica.
Non mi intendevo di cose letterarie, avevo letto si e no la Bibbia, ma in quel caso avevo diritto più di chiunque altro di esprimere la mia opinione.
Perché il protagonista di quel libro, ero io.
E' il 7 luglio 1929.
A Roma, allo Stadio Nazionale del PNF, si assegna il campionato di calcio, ultimo campionato a gironi.
Se lo contendono il Bologna e il Torino. 3-1 all’andata per il Bologna, 1-0 per il Torino al ritorno.
Niente differenza reti all’epoca.
E’ spareggio.
Sinceramente a me interessava poco quella partita.
Non fosse altro per i miei 10 anni.
Con i miei amichetti avevo deciso di andare all’Adda a fare il bagno.
Noi ragazzi poveri di Cassano d’Adda ci divertivamo così, malgrado fossimo a conoscenza della pericolosità del fiume.
Con noi portavamo sempre il “Ciapìn”, ferro di cavallo, un ragazzino di sei anni chiamato così perché portava fortuna.
Avevamo tutti un nomignolo.
Io ero il “Tulèn”, perché prendevo a calci tutto quel che trovavo per strada, pallone di stracci o barattoli di latta.
“Morire sì, tocca a tutti prima o poi.
Ma morire così: schernito, umiliato, con il marchio di criminale e vecchio libidinoso.
Mi avessero detto prima di nascere che sarebbe finita così, avrei senz’altro declinato l’invito: no grazie, avanti un altro. Io aspetto tempi migliori…”
Oggi è il 2 giugno del 1942.
E sono 77.
I giorni passati in cella dopo la condanna, intendo.
E Irene?
Non ho sue notizie dal giorno della sentenza.
Ho saputo che è rinchiusa in un carcere femminile di massima sicurezza, insieme a ladre, assassine, prostitute e comuni criminali.
Chissà se è vero che la testa continua a vivere per qualche tempo, dopo che è stata tagliata dal corpo.
Perché sto per essere ghigliottinato?
Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?
Niente.
Ma è una lunga storia.
Iniziata nel 1932.
Sono arrabbiata, è vero.
Ma non per il pari merito che hanno decretato i giudici. Quella è solo un’ingiustizia.
E’ già successo nella gara precedente, quando i giudici mi hanno fatto perdere alla trave l’ennesima medaglia d’oro.
Troppe le pressioni per favorire le sovietiche.
Sono arrabbiata per ben altro.
Qualcosa di molto più profondo e importante, che tocca profondamente il mio cuore.
Mio e di tutto il mio popolo.
Non ce l’ho con lei, la sovietica Larisa Petrik che è con me sul gradino più alto del podio.
Sarà un piccolo gesto, ma lo devo fare.
Mi chiamo Vera e sono nata a Praga durante la guerra, esattamente il 3 Maggio 1942.
Avevo 14 anni quando mi appassionai alla ginnastica artistica.
A 16 anni avevo già vinto il mio primo argento ai mondiali.
E da quel giorno non mi fermai più, medaglia dopo medaglia.