Mi chiamo "Pieterson".
In realtà il cognome originale della mia famiglia è "Pitso", trasformato in "Pieterson" nel tentativo di passare dallo status legale di "neri" a quello di "coloured" (meticci).
Che volete.
Pure questo dovevamo subire pur di avere una vita dignitosa.
Cosa provocò gli incidenti del giugno del 1976?
Fu colpa del ministro sudafricano dell'istruzione.
Tempo prima aveva emanato un decreto che rendeva obbligatorio l'uso dell'Afrikaans (una lingua figlia dell’olandese) come mezzo di istruzione nelle nostre scuole.
Dei neri intendo.
Perché lo fece senza consultare il popolo africano?
Perché secondo lui si doveva parlare solo afrikaans perché i "capi" parlavano quella lingua.
"Se gli studenti non sono contenti, stiano pure lontano da scuola poiché la frequenza non è obbligatoria per i neri".
Già.
Scusate, ma vi sembra giusto che sia sovvenzionata dal governo solo la scuola dei bianchi mentre i genitori neri devono pagare un mese di stipendio all’anno per mandare i figli a scuola?
E noi neri dobbiamo comprare i libri di testo, mentre per i bianchi sono gratis?
Comunque.
Tutto iniziò il 1º gennaio 1975 quando tutti i presidi delle scuole nere ricevettero ordine di usare l'afrikaans nelle lezioni.
L’ultimo episodio di una lunga serie.
Dopo aver perso gradualmente molti altri diritti ci obbligavano a parlare"la lingua degli oppressori"
Era il 16 giugno e faceva freddo nella township di Soweto, quando 20.000 studenti uscirono dalle scuole per una grande manifestazione.
Io, Hector Pieterson, ero in mezzo a loro.
Una manifestazione pacifica.
Davanti avevamo cartelli con scritto: “Non sparateci, non siamo armati"
Chi innescò il massacro?
Sicuramente non noi, anche se qualcuno disse che furono alcuni bambini a tirare per primi delle pietre.
Noi eravamo disarmati.
La polizia lo sapeva, ma aveva iniziato comunque a tirare lacrimogeni.
Perché alla fine iniziò a sparare?
Perché?
Non lo so.
Sta di fatto che i poliziotti bianchi iniziarono a sparare senza motivo.
Io non avrei dovuto essere lì.
Non fosse altro per i miei 13 anni.
Mia sorella Antoinette mi vide dall’altro capo della strada e corse verso di me rassicurandomi.
Poi riprese la marcia.
Io nemmeno mi accorsi di quel poliziotto bianco.
Mentre il corteo cantava "l’inno della liberazione" che il governo aveva assolutamente vietato, il poliziotto bianco aprì il fuoco.
Altri lo seguirono.
E fu l’inferno.
Cosa si prova a ricevere una pallottola in corpo?
Avete presente quando picchiate un gomito contro uno spigolo?
Quella la prima sensazione.
Poi tanto bruciore, si vede tutto nero e si perdono i sensi.
Poi non chiedetemi altro.
So solo che non è stato giusto morire a 13 anni.
Lui, Mbuyisa non aveva partecipato alle proteste, ma quando aveva sentito gli spari era corso per aiutare i feriti.
E’ il ragazzo che mi tiene in braccio nella foto.
Quella che si dispera accanto invece è mia sorella Antoinette.
Mi stanno portando in ospedale.
Inutilmente.
Nei giorni successivi ci furono altri scontri.
Il numero delle vittime venne stimato dai 200 a 600.
Secondo il governo sudafricano le vittime furono 23.
Il numero dei feriti fu stimato essere superiore a 1000.
Una commissione d’inchiesta accertò che morirono 575 persone.
Dicono che una fotografia vale più di mille parole.
Qualcuna, grazie alla sua forza espressiva, è persino riuscita a smuovere le coscienze e messo in atto cambiamenti politici e di costume.
Accadde con quella foto.
La foto con me agonizzante.
A scattare quella foto fu un fotografo sudafricano, Sam Nzima.
Dopo aver ricevuto minacce dalla polizia, si licenziò e scappò da Soweto.
In seguito fu rintracciato, arrestato e costretto agli arresti domiciliari.
Da quel giorno non scattò mai più una foto.
Sapete, iniziano sempre così.
Con silenziare il dissenso.
Una frase, uno striscione, un canto, una protesta.
Poi cominceranno a togliervi un diritto dopo l’altro.
State attenti.
Se mai dovesse accadere reagite.
Prima che sia troppo tardi.
Mi chiamavo Hector Pieterson e avevo solo 13 anni.
E non sono morto inutilmente.
Dopo quella proteste, iniziate il 16 giugno, il governo sudafricano decise che le scuole potevano usare la lingua di insegnamento che preferivano.
Ricordatevi.
L'indifferenza non paga.
Mai.
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Oggi è il 22 maggio 1996.
Cosa ci faccio in un’aula di tribunale?
Perché non è mai troppo tardi per avere giustizia.
Mi chiamo Giulia.
E questa è la mia storia.
Sono nata al Testaccio e nello stesso rione mio padre aveva un negozio di biancheria.
Lui non aveva studiato, ma nessuno riusciva a far di conto come lui.
Per mio madre era un autentico sognatore.
Da piccola ho conosciuto la miseria.
Via via che crescevo le cose però migliorarono.
Lo capii il giorno in cui i miei genitori rincasarono tardi dopo essere stati al ristorante.
Parlavano del cinematografo e di quei cinegiornali dell’Istituto Luce.
Quando arrivarono nella nostra terra fecero esattamente quello che avevano fatto con i nativi americani.
Ma i nativi americani erano anche guerrieri e con loro la cosa andò per le lunghe.
Con noi aborigeni la cosa fu molto più veloce.
La nostra distruzione, intendo.
Tutto era iniziato nel 1770 quando l’esploratore James Cook era sbarcato a Botany Bay.
Diciotto anni dopo il nostro territorio era stato ritenuto colonizzabile.
«Terra Nullius», avevano dichiarato.
Dal diritto romano "terra che non appartiene a nessuno".
Già.
“Terra che non appartiene a nessuno”, inabitata. Peccato che noi eravamo lì da almeno 50.000 anni. Certo, un milione e mezzo di esseri umani in quella terra sconfinata parevano pochi.
Ma era la nostra terra.
Anche se per la nostra cultura non esisteva la “proprietà privata”
Come sono finita su uno dei 10 tavoli della sala I dell’Obitorio?
Il medico legale non è rimasto sorpreso dopo aver visto i fori di sei proiettili calibro 6,35.
Due nella regione scapolare, uno nel petto, uno nel collo e due ai polsi.
Sì, ho cercato di difendermi, e di coprirmi.
Il professor Antonio Gazzaniga ha trovato acqua nei miei polmoni.
Che tenero.
Se ti scaricano un intero caricatore, poi ti tolgono collana, bracciale e borsetta e ti gettano nell’Olona presso il ponte di Via Renato Serra, l’acqua nei polmoni non è nemmeno la cosa più importante
Sono stata uccisa nella notte del 28 gennaio 1953 e ritrovata da alcuni ragazzini che giocavano a pallone lì vicino il mezzogiorno seguente.
Per scoprire la mia identità è bastato confrontare i rilevamenti con i cartellini segnaletici contenuti negli archivi della Questura.
“Nessun fiocco di neve si sente mai responsabile in una valanga.”
(Stanisław Jerzy Lec)
Quelleo che segue è il testo della canzone "Matamoros Banks", cantata da Bruce Springsteen.
Racconta la storia del mio viaggio alla ricerca di un futuro migliore.
“Ogni anno molte persone
muoiono attraversando deserti
montagne e fiumi dei nostri confini meridionali
in cerca di una vita migliore
qui seguo il viaggio al contrario
dal corpo sul letto del fiume
all’uomo che cammina per il deserto
verso le rive del Rio Grande.
Per due giorni il fiume ti tiene giù
poi sali alla luce senza un suono
passi i luoghi di villeggiatura e vuoti
scali di smistamento
le tartarughe mangiano la pelle dai tuoi occhi
così giacciono aperti alle stelle.
Dai via i tuoi vestiti
Qual è stata, nella storia, la durata media di una guerra?
Una risposta non semplice.
Nel mondo antico e in quello medioevale ci sono state guerre di durata lunghissima.
Nel mondo moderno ci sono state anche guerre lampo, in tedesco Blitzkrieg.
Nel mondo antico sono diverse le guerre di una certa durata.
La Guerra del Peloponneso per esempio.
Venne combattuta in Grecia e nel Mediterraneo tra le due città rivali, Atene e Sparta e i loro alleati.
Durò all'incirca 27 anni, dal 431 a.C. al 404 a.C.
Le Guerre Puniche, che si sono combattute tra Roma e Cartagine per la supremazia del Mediterraneo, sono durate complessivamente circa quarantatré anni.
Ventitré la prima (dal 264 al 241 a.C.), diciassette la seconda (dal 218 al 201 a.C.) e tre la terza (dal 149 al 146 a.C.)
10 ottobre 1928 – Discorso di Mussolini ai 70 direttori dei giornali.
“Voi vi rendete conto che non poteva avvenire prima, perché solo dal gennaio del 1925, e più specialmente in questi ultimi due anni, è stato approntato e risolto quasi completamente il problema della stampa”.
10 ottobre 1928 – Discorso di Mussolini ai 70 direttori dei giornali.
"Le accuse sulla soffocazione della libertà di stampa, non hanno più credito alcuno. La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa”
10 ottobre 1928 – Discorso di Mussolini ai 70 direttori dei giornali.
“Non servono il regime coloro i quali non tengono la misura della dignità di fronte agli stranieri, sia quando sono ospiti dell’Italia, sia quando esprimono giudizi sul Regime, su Mussolini.”