Da oltre 50 anni dove c’è una guerra, una calamità naturale, dove c’è sofferenza da alleviare e vite da salvare ci sono loro.
Come dopo il terremoto in Nicaragua del 1972 che distrusse gran parte della città di Managua uccidendo tra 10.000/30.000 persone. @MSF_ITALIA@MSF
Ed erano lì nel 1974, quando l’uragano Fifi devastò l’Honduras. avviando la prima missione di assistenza medica di lungo periodo.
Il primo loro grande intervento in una zona di guerra avvenne nel 1977 in Libano.
Nel 1978 hanno poi avviato attività per i rifugiati in Thailandia, nella regione di Ogaden e per i rifugiati eritrei in Sudan.
Nel 1990 erano in Liberia durante la guerra civile.
E nel 1994, loro erano lì, in Ruanda, a Kigali, durante il genocidio.
E nel 1995 erano a Srebrenica testimoni della caduta della “zona protetta” della Nazioni Unite denunciando il massacro di migliaia di civili.
Nel 2001 erano in sette paesi a fornire farmaci antiretrovirali ai malati sieropositivi HIV/AIDS.
Nel 2004 erano in Darfur e Ciad a lanciare campagne di vaccinazione di massa durante un’emergenza nutrizionale.
Nel 2005 lo tsunami in Indonesia.
In 48 ore i loro uomini e donne erano sul posto per distribuire acqua, forniture mediche e igieniche.
E poi in Afghanistan nel 2009, in Sudan ad assistere i rifugiati che scappavano dal Paese.
Nel 2013 in Siria, in Giordania, in Libano e in Iraq
Nel 2014 con l’epidemia di Ebola hanno messo in piedi il più grande intervento mai realizzato per arginare l’epidemia in sei paesi in Africa occidentale. Nel 2017 li troviamo durante l’emergenza dei Rohingya, in fuga dal Myanmar.
Nel 2018, dal 1° aprile al 28 maggio, sono a Gaza, per assistere tutti i feriti degli scontri tra palestinesi ed esercito israeliano.
E poi 2020 con l’Emergenza COVID-19 MSF mette in campo, fin dai primi giorni, una risposta alla pandemia da Covid-19 in più di 70 paesi.
Per la loro esperienza con misure di prevenzione del contagio acquisite in epidemie di Ebola, morbillo o colera, sono stati in prima fila all’inizio della pandemia in 70 Paesi.
Compresa l’Italia.
Oggi sono in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane a visitare migliaia di persone impossibilitate ad accedere alle cure.
Sono in Ucraina, anche al fronte, a salvare vite umane.
E in Turchia e in Siria dopo il terremoto.
Sono ovunque nel mondo.
Dove si sono conflitti, dove ci sono epidemie e cure negate, dove ci sono catastrofi naturali e popolazioni in fuga da guerre, crisi e povertà.
A dare assistenza medica, supporto psicologico, a dare cibo e acqua.
Loro sono gli uomini e donne dell’organizzazione umanitaria non governativa Medici senza frontiere.
Ecco, noi abbiamo multato e approvato una legge contro uomini e donne di MSF (Geo Barents).
Abbiamo multato e fermato dei soccorritori, in un Paese dove l’omissione di soccorso è un reato.
Non siamo l’unico Paese ad aver fatto una legge contro le ONG.
Prima di noi lo ha fatto la Russia nel 2012.
E poi anche ’Ungheria di Orban nel 2015.
Una legge che mirava a screditare le ONG definita “Stop Soros”.
Lo so, non proprio una bella compagnia.
C’è da dire che Orban è stato costretto poi a ritirare la legge “anti Soros” dopo l’intervento della Corte di giustizia europea.
Nel 1999 Medici Senza Frontiere è stata insignita del Premio Nobel per la Pace “in riconoscimento del lavoro umanitario realizzato in vari continenti” e per onorare lo staff medico dell’organizzazione impegnato a curare decine di milioni di persone in tutto il mondo”.
A ritirare il Premio Nobel per la pace assegnato nel 1999 a Medici Senza Frontiere c’era lui, un medico italiano di MSF.
Si chiamava Carlo Urbani, morto il 29 marzo 2003. Una storia che ho raccontato tempo fa.
«Scappiamo in Italia» ripeteva mia moglie Giuliana. Misi lei e i nostri tre figli Tommaso, Luca e la piccola Maddalena su un aereo per l’Italia.
Invece io rimasi, perché…
«Se di fronte alla malattia il medico scappa, chi resta?».
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/4j4VsUB
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline.
Con quei bei cannoni tutti neri.
Il morale alto.
Pronto a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli".
Il primo sparo?
Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer.
Resistemmo fino all’impossibile.
Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata.
Un durissimo colpo
(Bragation morirà il 12 settembre)
“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino.
Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so.
Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli.
Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi.
Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta.
Con strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
Ieri Johannes ha dato voce ad Alexander Selkirk, il pirata la cui storia, secondo alcuni, è la stessa raccontata da me nel libro “Robinson Crusoe”.
(Leggete qui )
Non è così.
Per cui ritengo giusto portare alla vostra conoscenza la mia versione. bit.ly/4k5qo81
E’ vero, andai da Alexander per sentire dalla sua voce quella storia che girava ormai da anni.
I suoi quattro anni e quattro mesi passati sull’isola Juan Fernández.
Il mio Robinson è quindi Alexander Selkirk?
Una definizione avventata, e in quanto tale, assolutamente inesatta.
Come avrete capito mi chiamo Daniel Defoe.
E vi farò una confessione.
Dalla vicenda di Alexander, che avevo conosciuto attraverso gli scritti di Rogers e dello Steele, e approfondita durante l’incontro con lo stesso Alexander, ho preso solo lo spunto.
Nulla più.
Fui sicuramente uno dei primi a leggere quel romanzo, uscito esattamente il 25 aprile 1719.
E non potei fare a meno di rilevare un sacco di inesattezze.
Per me era chiaro.
Quello che lo aveva scritto non aveva mai vissuto ai tropici.
C’erano un sacco di errori e imprecisioni.
Come quel personaggio inseguito dai selvaggi che non sapeva nuotare.
Assurdo.
E cosa dire del protagonista che, in un’isola del Sudamerica, si era messo a costruire una palizzata per proteggersi dalle bestie feroci?
Altra assurdità.
E poi foche, pinguini, alle foci dell’Orinoco.
A quei tempi ero sottotenente sulla nave Weymouth della marina di S.M. britannica.
Non mi intendevo di cose letterarie, avevo letto si e no la Bibbia, ma in quel caso avevo diritto più di chiunque altro di esprimere la mia opinione.
Perché il protagonista di quel libro, ero io.
E' il 7 luglio 1929.
A Roma, allo Stadio Nazionale del PNF, si assegna il campionato di calcio, ultimo campionato a gironi.
Se lo contendono il Bologna e il Torino. 3-1 all’andata per il Bologna, 1-0 per il Torino al ritorno.
Niente differenza reti all’epoca.
E’ spareggio.
Sinceramente a me interessava poco quella partita.
Non fosse altro per i miei 10 anni.
Con i miei amichetti avevo deciso di andare all’Adda a fare il bagno.
Noi ragazzi poveri di Cassano d’Adda ci divertivamo così, malgrado fossimo a conoscenza della pericolosità del fiume.
Con noi portavamo sempre il “Ciapìn”, ferro di cavallo, un ragazzino di sei anni chiamato così perché portava fortuna.
Avevamo tutti un nomignolo.
Io ero il “Tulèn”, perché prendevo a calci tutto quel che trovavo per strada, pallone di stracci o barattoli di latta.
“Morire sì, tocca a tutti prima o poi.
Ma morire così: schernito, umiliato, con il marchio di criminale e vecchio libidinoso.
Mi avessero detto prima di nascere che sarebbe finita così, avrei senz’altro declinato l’invito: no grazie, avanti un altro. Io aspetto tempi migliori…”
Oggi è il 2 giugno del 1942.
E sono 77.
I giorni passati in cella dopo la condanna, intendo.
E Irene?
Non ho sue notizie dal giorno della sentenza.
Ho saputo che è rinchiusa in un carcere femminile di massima sicurezza, insieme a ladre, assassine, prostitute e comuni criminali.
Chissà se è vero che la testa continua a vivere per qualche tempo, dopo che è stata tagliata dal corpo.
Perché sto per essere ghigliottinato?
Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?
Niente.
Ma è una lunga storia.
Iniziata nel 1932.