Ho fatto fisica all’università. Ero l’unica donna di tutto il corso. Quando entravo in aula gli studenti maschi fischiavano e battevano i piedi. Oggi sono nella Royal Society e quando entro in aula tutti si alzano in piedi. Mi chiamo Jocelyn Bell, sono un’astrofisica.
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Sono nata a Belfast nel pieno della seconda guerra mondiale. Mio padre è un architetto che ha contribuito a progettare un planetario qui vicino e quando vado a visitarlo mi suggeriscono di dedicarmi all’astronomia.
Prendo il suggerimento sul serio, ma vado in una scuola dove solo i maschi studiano scienze, mentre le ragazze imparano cucina e punto croce. Ai miei genitori questo non sta bene, protestano e così posso studiare scienze anch’io insieme a due mie compagne.
Mi laureo a Glasgow e faccio il dottorato a Cambridge, con il radioastronomo Antony Hewish. Aiuto a costruire un nuovo radiotelescopio nato per studiare i #quasar, nuclei galattici attivi molto luminosi. Per due anni stendiamo fili su un’area grande come due campi da calcio.
Nel 1967 il radiotelescopio entra in funzione. Il mio compito è analizzare i dati prodotti: sono grafici stampati su carta che assomigliano alle registrazioni di un sismografo: 30 metri di carta al giorno. Ogni quattro giorni il cielo viene completamente scandagliato.
Sono convinta di non essere abbastanza brava per stare a Cambridge e che prima o poi se ne accorgeranno: oggi diremmo che ho la sindrome dell’impostore. Ho paura di lasciarmi sfuggire qualcosa e verifico tutto minuziosamente.
I radiotelescopi ricevono interferenze causate dall’attività umana: quando questo avviene, le oscillazioni stampate sulla carta si allargano leggermente. Ogni volta che vedo un’interferenza che non riesco ad associare a una causa umana nota la registro.
Mi accorgo che c’è un punto specifico nel cielo da cui ogni tanto si ripete uno di questi segnali: una macchia di mezzo centimetro su 120 metri di carta. La comunico al mio supervisore Antony Hewish. Lui inizialmente non le dà peso, pensa che sia un artefatto.
Ma il 28 novembre 1967 trovo un’altra volta il segnale, nei dati di agosto. Lo trovo anche nei dati di un altro radiotelescopio. Non è un artefatto. È una sorgente radio che pulsa con una frequenza di 1,3 secondi. Una cosa che stupisce gli astrofisici di tutto il mondo.
Molti giornalisti vengono a intervistarci. Ad Antony Hewish fanno domande di astrofisica, a me chiedono quanti fidanzati ho avuto e di sbottonarmi un po’ la camicetta per rendere le foto più interessanti.
Un giornalista del Daily Telegraph abbrevia l’espressione “pulsating radio source” (sorgente radio pulsante) in “#pulsar”. La parola piace e iniziano a usarla tutti.
Dopo molte ipotesi, si capisce che le pulsar sono stelle di neutroni, estremamente dense (il volume di un cucchiaino peserebbe 4 miliardi di tonnellate, come 10.000 Empire State Building).
Ruotano su sé stesse e emettono uno stretto fascio di onde elettromagnetiche, che noi riceviamo a intervalli regolari solo quando puntano nella direzione dei nostri radiotelescopi.
Nel 1968 sposo un funzionario governativo, Martin Burnell. Alcuni miei colleghi mi criticano per essere rimasta all’Osservatorio: forse che lui non guadagna abbastanza per mantenermi?
Nel 1974 per la scoperta delle pulsar il premio Nobel per la fisica viene assegnato a Antony Hewish e al suo collega Martin Ryle. Ma non a me. Il grande Fred Hoyle si arrabbia molto per la mia esclusione.
Qualcuno ribattezza il premio “No-Bell”. La motivazione ufficiale è che all’epoca ero solo una dottoranda. Ma non so se un dottorando uomo sarebbe stato escluso nello stesso modo.
Io non me la prendo. Non c’è un premio Nobel per l’astronomia, ma sono orgogliosa che la scoperta sia stata considerata abbastanza importante per la fisica.
Dopo il dottorato lavoro alle università di Southampton e Londra e all’Osservatorio Reale di Edimburgo. Nel 2002 divento presidente della Royal Astronomical Society.
Nel 2018 mi viene assegnato un premio speciale di tre milioni di dollari per la scoperta delle pulsar.
Non voglio questi soldi per me. Li dono tutti a un fondo che permetta di studiare fisica a donne, membri delle minoranze e rifugiati. Le disparità di trattamento sono diminuite rispetto a quando ero studentessa io, ma c’è ancora molto lavoro da fare.
(fine)
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È il primo maggio 1990. Mentre in Italia ci stiamo preparando ai mondiali di calcio di Baggio e Schillaci, la rete di antenne radio della NASA riceve dalla sonda Voyager 1 una serie di fotografie scattate tre mesi prima e non previste dal programma della missione. Una di queste, a prima vista poco appariscente, è destinata a entrare nella storia.
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Facciamo un passo indietro. Il 5 settembre 1977 vengono lanciate da Cape Canaveral le sonda gemelle Voyager 1 e 2 con una vita prevista di tre anni, fino all’incontro con le lune di Saturno. In realtà la missione dura molto di più e, nel 1990, dopo anni di discussioni, l’astronomo Carl Sagan convince la NASA a far ruotare all’indietro una fotocamera di una delle due sonde in modo da fare un’ultima fotografia ai pianeti del Sistema Solare, prima di allontanarsi troppo.
Delle due fotocamere a bordo di Voyager 1 viene usata quella con risoluzione più alta e angolo di visuale più stretto. Nel momento in cui viene scattata la fotografia, il 14 febbraio 1990, la sonda si trova a 6 miliardi di km dalla Terra, ossia 40 volte la distanza tra la Terra e il Sole, e si sta allontanando alla velocità di 64.000 chilometri all’ora. Da questa distanza si vedrà pochissimo, ma Sagan intuisce che proprio per questo è importante fare la fotografia: per farci riflettere sulla nostra vulnerabilità e sulla nostra posizione nell’universo. L’immagine non ha alcun valore scientifico, ma il suo valore simbolico si rivelerà incalcolabile.
La fotografia è composta da 640.000 pixel. La Terra è così piccola che occupa meno di un pixel (circa un decimo di pixel, secondo i calcoli della NASA). Come in tutte le fotografie della Terra dallo spazio, il suo colore è azzurro a causa della diffusione di Rayleigh attraverso l’atmosfera. Per questo Carl Sagan la chiamerà “Pale Blue Dot” (“puntino celeste”). Le bande luminose che si vedono nella fotografia sono un artefatto causato dalla riflessione della luce solare su parti della fotocamera.
La grande distanza dal nostro pianeta riduce le possibilità di trasmissione dei dati e costringe a usare un elevato tempo di esposizione per riuscire a catturare la debole luminosità della Terra. Quando l’immagine viene trasmessa al controllo missione, impiega cinque ore e mezza solo per arrivare a destinazione, viaggiando alla velocità della luce.
Nel loro insieme le fotografie dei pianeti del sistema solare scattate dalla sonda vengono ricordate come il “Family Portrait” (“Ritratto di famiglia”).
Dato che la potenza elettrica prodotta dai generatori a radioisotopi della sonda diminuisce continuamente e che gli altri strumenti hanno bisogno di energia elettrica, al termine di questa serie di scatti la NASA decide di spegnere per sempre le fotocamere della sonda. Dopo averci visti per l’ultima volta, Voyager 1 prosegue il suo cammino a occhi chiusi.
Oggi sono passati 35 anni dalla foto del puntino celeste e 48 dall’inizio della missione e incredibilmente Voyager 1 è ancora viva e comunica con il controllo missione della NASA, nonostante continui a essere bombardata dalle radiazioni cosmiche e abbia sempre meno energia a disposizione. A 25 miliardi di km dalla Terra è l’oggetto costruito dall’umanità più lontano da noi, è ormai entrata nello spazio interstellare e continua il suo viaggio verso l’ignoto.
Nel suo libro del 1994 “Pale Blue Dot” Carl Sagan commenta così la fotografia:
«Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L'insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni "superstar", ogni "comandante supremo", ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole. (...) Non c'è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l'uno dell'altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l'unica casa che abbiamo mai conosciuto.»
Sapevate che i razzi riutilizzabili con atterraggio in verticale sono stati ideati sessant’anni fa dal figlio di due poveri immigrati siciliani? La storia del geniale Philip Bono è ingiustamente poco conosciuta.
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Giulio Bono e Maria Culcasi sbarcano da Trapani a Ellis Island il 7 gennaio 1920. Trovano casa a Brooklyn e Giulio viene assunto in un pastificio. Philip, il loro secondo figlio, nasce l’anno seguente e la famiglia si trasferisce prima in New Jersey e poi in Pennsylvania.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale Philip Bono presta servizio in marina e nel 1947 si laurea in ingegneria meccanica. Lavora per molti anni nell’industria aeronautica, prima alla North American Aviation, poi alla Douglas e infine alla Boeing.
Mi chiamo Vera Florence Cooper e sono nata a Philadelphia nel 1928. I miei genitori sono ebrei immigrati dall’Europa orientale e lavorano come impiegati della compagnia telefonica Bell. Incoraggiano me e mia sorella Ruth a studiare qualsiasi cosa ci appassioni.
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Mia sorella diventerà un importante giudice. Io da grande voglio fare l’astronoma. Mio padre ma mi aiuta a costruire un semplice telescopio con due lenti e un tubo di cartone e mi accompagna regolarmente alle riunioni degli astrofili.
I miei professori delle superiori si stupiscono che una ragazza voglia studiare astronomia: se mi piacciono i corpi celesti, perché non provo a studiare arte e poi dipingerli? Non li ascolto e mi iscrivo al Vassar College, dove nel 1948 sono l’unica laureata in astronomia.
Il 21 luglio 1961 a Cape Canaveral è una giornata nuvolosa. In rampa di lancio c’è un razzo pronto a partire, il Redstone. Gli USA stanno per lanciare il loro secondo uomo nello spazio, due mesi e mezzo dopo Alan Shepard: è un altro ex pilota militare, Gus Grissom.
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La missione durerà solo 15 minuti: è un volo suborbitale, non un’orbita completa intorno alla Terra come quella compiuta il 12 aprile dal russo Jurij Gagarin, perché gli americani vogliono fare altra esperienza prima della loro missione orbitale con un razzo più grande, l’Atlas.
La capsula Mercury 11 raggiungerà una quota di poco meno di 200 chilometri e inizierà la sua discesa, per poi ammarare a circa 300 chilometri dalla costa della Florida.
Il 1° febbraio 2003 lo Space Shuttle Columbia si disintegra durante il rientro in atmosfera, provocando la morte dei sette componenti dell’equipaggio. La tragedia è innescata da un danno avvenuto durante il lancio al “sistema di protezione termica”.
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È un rivestimento necessario per proteggere dal surriscaldamento tutti i veicoli che rientrano in atmosfera, non solo sulla Terra ma anche su altri pianeti, come Marte.
Come le meteore, che rientrando in atmosfera si incendiano e ci appaiono come stelle cadenti, i veicoli spaziali si surriscaldano a causa di due fenomeni distinti.
Ha formato le matematiche che hanno permesso agli Stati Uniti di vincere la corsa allo spazio e ha contribuito a uno dei più importanti razzi della NASA, ma da viva era quasi sconosciuta. Si chiama Dorothy Vaughan ed è la prima manager nera nella storia della NASA.
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Dorothy Jean Johnson nasce a Kansas City nel 1910. È una studentessa fuori dal comune e dopo il diploma riceve una borsa di studio per studiare matematica in un'università dell’Ohio riservata agli afroamericani. Nel 1932 emigra in Virginia con il marito Howard Vaughan.
Nel 1941 Roosevelt vieta la segregazione nell’industria militare. Molti uomini sono impegnati al fronte e c’è bisogno di aumentare la produzione di aerei da guerra, così entrano in fabbrica sempre più donne, anche di colore.