Se sono arrabbiato? Se sono arrabbiato?
No, tranquilli, non sono arrabbiato, SONO INFURIATO!!!
Ma cosa vi è venuto in mente di dare a quella storia quell’assurdo significato?
La mia storia voleva renderlo uno spauracchio, da cui stare lontani.
Altro che incentivo.
Me l’aveva raccontata, simile alla mia, un mio arciere, Pellegrino si chiamava, mentre a cavallo percorrevamo insieme la strada che da Gradisca porta a Udine.
Forse per distrarmi, forse per convincermi che in fondo se ne poteva fare a meno, perché nascono solo guai e disastri.
Nel 1524 vivevo, seppur nobile conte, una vita da invalido, dopo aver servito nell’esercito della Repubblica Veneta.
Ero riuscito a raggiungere il grado di capitano dei cavalleggeri, ma le troppe ferite mi avevano costretto a ritirarmi nella mia villa di Montorso.
Inabile al mestiere delle armi vivevo una vita melanconica, maledicendo la mia cattiva fortuna che mi aveva reso, ancor giovane, inattivo, inoperoso, non per indolenza o per mancanza di volontà.
Proprio “nel corso di così belle guerre”.
Avevo cercato di dare un nuovo senso alla mia vita, alle mie giornate, insegnando e scrivendo poesie in latino e italiano.
Avevo la speranza di ritrovare nelle lettere la gloria che avevo perduto sui campi di battaglia.
Dopo l’incontro con Pellegrino, iniziai a scrivere la storia
Mai avrei immaginato cotanta gloria, anche perché, quando la novella venne stampata nel 1530, io ero morto da almeno un anno.
Il solito fortunato.
Prima la forzata inazione, poi una gloria nemmeno assaporata.
Poteva accadermi qualcosa di peggio?
Poteva?
Anche dopo la mia morte intendo?
Sì, poteva, infatti è accaduto.
Tutta colpa vostra.
Perché siete andati oltre le mie parole?
Perché le avete dato un senso completamente opposto da quelle che erano le mie intenzioni?
Fin da subito la novella ebbe un successo incredibile nelle corti del Rinascimento e fra tutti gli intellettuali. E le rielaborazioni non si fecero attendere.
Come quella di un celebre scrittore di novelle, il domenicano Matteo Bandello.
Diciamo un religioso mondano, via.
E dove va ad ambientare la “mia” novella?
Nella città termale di Caldiero, dove lui si era recato per curarsi il suo maledetto mal di reni.
Però bravo era bravo, tanto che da successo italiano, diventò ben presto un successo europeo.
Era un’epoca dove tutto ciò che era italiano dettava legge in Europa.
E così il francese Pierre Boaistuau, la riscrisse un tantino rimaneggiata dandole brio e spigliatezza. Arrivare in Inghilterra fu un attimo.
Qualcuno le diede persino il titolo di “Palazzo del Piacere”.
La lingua italiana aveva molti cultori in Inghilterra e tra questi certamente c’era anche lui, che nelle sue opere amava mettere alcune battute in italiano.
La novella del Bandello, elaborata sulla trama di Luigi da Porto, fu la sua principale fonte d’ispirazione.
Chi è questo Luigi da Porto?
Sono io, sveglia, quello che ha scritto quella novella dal titolo: «Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti: con la loro pietosa morte intervenuta già al tempo di Bartolomeo della Scala».
Shakespeare la portò in scena a Londra nel 1596.
La sua compagnia si chiamava “La compagnia del ciambellano”.
Tutti i teatri avevano un protettore e il suo era il cugino della Regina Elisabetta, Lord Henry Hunsdon, che a corte ricopriva proprio quella carica.
Il titolo di quel dramma?
“Romeo and Juliet”.
Il dramma, come si usava a quei tempi, fu sottoposto all’esame dei funzionari della censura.
Non volevano che in qualche spettacolo ci finisse dentro qualche passaggio lesivo del prestigio del governo o della sovrana.
Si chiamava Tilney, il “sopraintendente ai divertimenti”.
Naturalmente i puritani ritenevano “Romeo e Giulietta” immorale dalla prima all’ultima parola.
Però quel racconto avrebbe convinto i lettori a «evitare la rovina, lo sconvolgimento, la sconvenienza e il disgusto che i lascivi desideri e le voglie insubordinate portano con sé».
In realtà la cosa che che più turbava quella gente era che quegli sfortunati amanti avevano ceduto al desiderio trascurando l’autorità dei genitori.
Lo sapevano bene Lady Catherine Grey e il conte di Hertford, rinchiusi nella torre di Londra per essersi sposati in segreto.
Senza l’autorizzazione della Regina, intendo.
E così Lady Catherine era morta in prigione dopo aver dato alla luce due figli.
A Shakespeare tutta questa moralizzazione importava poco.
Nella sua tragedia si era limitato a esporre semplicemente quei fatti nella Verona medioevale
Shakespeare aveva solo trentatré anni e aveva affidato la parte di Romeo a un giovane della compagnia.
Il ruolo di Giulietta ad un altro ragazzo travestito da fanciulla.
Normale a quei tempi visto che non c’erano attrici. Così tutto era affidato solo alle parole.
Come dite?
Perché all’inizio ho detto di essere infuriato?
E me lo chiedete?
Ho scritto la storia di Romeo e Giulietta, insomma quella roba lì, per un motivo solo.
Con un intendimento diametralmente opposto.
Altro che glorificazione dell’amore.
Ho denunciato l’amore come fonte d’affanni e tribolazioni senza fine.
Uno spauracchio, altro che incentivo all’amore. Un’esortazione rivolta soprattutto a me stesso. Scommetto che non avete letto la lunga dedica alla "Bellissima e leggiadra madonna Lucina Savorgnan”.
Immaginavo.
La incontrai a un ballo.
Era una mia cugina alla lontana e aveva quindici anni. Ne rimasi incantato.
Ci innamorammo, ma senza rendere pubblici il nostro amore e le nostre frequentazioni.
Il motivo?
Allora siete di coccio.
Appartenevamo a due rami antagonisti della famiglia. Non vi starò a raccontare tutta la vicenda, vi dico solo che Venezia, nel 1516, ordinò al tutore di Lucina di farla sposare con Francesco Savorgnan.
Capite perché ho scritto quella storia?
La mia Lucina costretta a un bell’accordo patrimoniale, sancito da un orrido matrimonio.
E voi ne avete fatto il trionfo di un giovane amore sulla rivalità di famiglia.
Ne avete fatto la più grande storia di amore che sia mai stata scritta.
Non era quella la mia intenzione.
Dite che ho solo riscritto e riambientato la vicenda drammatica di due innamorati già nota in letteratura? Scritta sì da me, ma resa poi immortale da Shakespeare?
Pensate quello volete.
Ho detto la mia.
E poi, per dirla tutta, quello Shakespeare non ha mai messo piede a Verona.
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Come vivevano nei campi di concentramento?
Nei lager non si vive, si sopravvive.
Avevano pochissimo da mangiare, un pugno di riso e un pezzo di pane duro che sarà pesato al massimo 150 grammi.
Tutto lì.
Non avevano nemmeno la forza di lavorare con tutte quelle epidemie di tifo.
Le donne avevano paura di uscire dalle tende persino per fare i bisogni.
I guardiani picchiavano tutti continuamente.
Ogni scusa era buona per punire i prigionieri con la morte.
Costringevano gli altri a vedere le esecuzioni.
Almeno una cinquantina ogni giorno.
Tutti i giorni.
Il 2 maggio 1931 era stato lui in persona, Graziani, a fare un censimento.
Nel lager di Marsa Brega c’erano 21.117 esseri umani. A Soluch 20.123.
A Sidi Ahmed el Magrun 13.050.
A El Agheila, 10.900 e a Agedabia 10.000.
A el Abiar 3.123.
In totale 78.313 cirenaici
Avrei dovuto ascoltare il canto nuziale che mi regalò il conte Ferdinando Crivelli.
“Che poi che teco alquanto avrà goduto, lussureggiando andrà con Questa e Quella, e invano ti udirem gridare aiuto: ma come indietro più non si ritorna, render solo potrai corna per corna”
Lo sposai il 24 settembre 1824 nella chiesa di San Fedele a Milano.
Lui, il principe Emilio Barbiano di Belgioioso, un uomo affascinante, provetto ballerino, ma anche un inguaribile libertino con il vizio di dilapidare i soldi di famiglia.
Il bello è che lo avevo sempre saputo.
La mia infatuazione per lui comunque durò poco.
In questi casi, a quei tempi, le donne generalmente si rassegnavano al tradimento.
O rendevano pan per focaccia.
Io feci altro quando scoprii che mi aveva tradito con la mia amica, Paola Ruga.
Me ne andai da lui e da Milano.
Oggi il Torneo al Queen’s Club è riservato ai soli uomini, ma non era così ai miei tempi.
Era comunque considerato, come oggi, la migliore anticamera prima della partecipazione a Wimbledon, il mio obiettivo.
E la mia spalla non va ad infiammarsi giocando proprio quel torneo?
Una sfortuna sfacciata.
Ero arrivata da poco proprio per fare il grande salto. Negli USA, la mia patria, avevo vinto molto, per quello avevo deciso di sbarcare in Europa.
E avevo iniziato vincendo i Tornei di Surbiton e Manchester come preparazione a Wimbledon.
Mi presento.
Mi chiamo Maureen Connolly e sono nata il 17 settembre 1934 a San Diego, in California.
Papà voleva un maschio, e per molti anni ho sempre creduto che fosse mia la colpa.
Del suo abbandono, dopo avermi promesso che sarebbe andato a comprarmi un gelato perché avevo la febbre.
“Iris era bella e solare, coinvolgente, dallo sguardo aperto e luminoso. Fosse vissuta in un’epoca diversa avrebbe fatto l’attrice. O la cantante, visto che aveva pure una bella voce. Aveva mani piccole, occhi verdi e orecchini pendenti”.
Così mi descrivono oggi gli storici.
Un’attrice io?
Non direi proprio.
Ero nata il 12 dicembre 1922, contadina, figlia di generazioni di contadini.
Ci eravamo trasferiti a Tredozio, nel podere Tramonto dove, dopo l'armistizio, si sarebbe costituita una delle prime bande partigiane del Forlivese.
Cosa fosse il fascismo lo avevo visto con i miei occhi. Durante una manifestazione in Piazza Saffi a Forlì, un anziano, che non si era tolto il cappello al passaggio di un corteo fascista, fu picchiato brutalmente e ridotto in fin di vita.
Siamo prossimi alla partenza del TT, il Tourist Trophy. Nessun straniero ha mai vinto, solo vittorie di motociclisti del Regno Unito, anche se la Guzzi, la mia moto, questa corsa l’ha già vinta due anni fa, nel 1935.
In due categorie.
Ma mai non con un pilota italiano.
A vincere nella 250 e nella classe 500 su Guzzi era stato il pilota irlandese Stanley Woods.
Correvo anch’io sulla stessa moto quell’anno, il 1935, ed ero anche favorito dopo aver stabilito nelle prove un incredibile 30’10” sul giro.
Un vero record.
Ero per gli inglesi “The Black Devil” per il colore della mia tuta e per gli americani il “corridore atomico”.
Ci tenevo a vincere.
Invece con la mia Guzzi 250 era finito in un banco di nebbia, con un corvo in mezzo alla strada e relativa caduta.
Con due vertebre rotte.
Accidenti se eravamo diversi.
Lui era Joe Louis, nero, nato in Alabama e cresciuto a Detroit.
Nel 1936, lui era "invincibile".
Come professionista veniva da un record di 23 vittorie e 0 sconfitte.
Ero l'ultimo suo ostacolo sulla strada per il titolo di campione del mondo.
Quello bianco ero io, Max Schmeling, nato in Germania.
Nel 1930 ero diventato il primo campione mondiale dei massimi a vincere il titolo.
Per squalifica contro Jack Sharkey.
Quel matto di Jack mia aveva atterrato con un colpo basso sotto la cintura.
Nel 1932 gli avevo dato la rivincita e quella volta lui mi avevo battuto.
Tra alti e bassi arrivammo al 1936.
Il titolo di campione del mondo dei massimi era detenuto da James Braddock.
Prima di combattere per il titolo, Joe Louis scelse di combattere contro me.