‘Ho contato i miei anni e ho scoperto che ho meno tempo per vivere da qui in poi rispetto a quello che ho vissuto fino ad ora. Mi sento come quel bambino che ha vinto un pacchetto di dolci: i primi li ha mangiati con piacere, ma quando ha compreso che ne erano rimasti pochi ha
cominciato a gustarli intensamente. Non ho più tempo per riunioni interminabili dove vengono discussi statuti, regole, procedure e regolamenti interni, sapendo che nulla sarà raggiunto. Non ho più tempo per sostenere le persone assurde che, nonostante la loro età cronologica,
non sono cresciute. Il mio tempo è troppo breve: voglio l'essenza, la mia anima ha fretta. Non ho più molti dolci nel pacchetto. Voglio vivere accanto a persone umane, molto umane, che sappiano ridere dei propri errori e che non siano gonfiate dai propri trionfi e che si assumano
le proprie responsabilità. Così si difende la dignità umana e si va verso della verità e onestà. È l'essenziale che fa valer la pena di vivere. Voglio circondarmi da persone che sanno come toccare i cuori, di persone a cui i duri colpi della vita hanno insegnato a crescere con
tocchi soavi dell'anima che solo la maturità sa dare. Non intendo sprecare nessuno dei dolci rimasti. Sono sicuro che saranno squisiti, molto più di quelli mangiati finora. Il mio obiettivo è quello di raggiungere la fine soddisfatto e in pace con i miei cari e la mia coscienza.
Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una’.
‘La mia anima ha fretta’
Mario de Andrade (1893-1945).
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Il temporale di questa notte ha illuminato a giorno il buio delle ore più lunghe. È quindi piacevole bere il caffe all’esterno. È fresco, i vestiti non si appiccicano alla pelle, il cielo è pulito.
È molto più facile pensare. Ed io pensavo che oggi, di due anni fa, capivo che le
felicità più belle sono quelle che si costruiscono a partire da brutte infelicità. Che le felicità più intense sono quelle che nascono quando riesci a svestirti di abiti che sembravano essere la tua normalità anomala. Due anni fa, oggi, stavo seduta sul bordo del letto della
stanza 406 dell’ospedale di Berna giochicchiando con il tubetto del drenaggio attaccato al rene sinistro. Con le dita cercavo di stabilire il diametro di quel tubetto e pensavo che nemmeno quella volta sarei tornata a casa senza. Così immaginavo come mi sarei potuta vestire, che
volevo dirti che oggi ho visto la tua mamma in lavanderia. Io ero un po’ di fretta (sai, la frittata che nel frattempo si è bruciata, il treno che non mi aspetta mai, i miei ragazzoni che sabato hanno gli esami. Insomma, la mia solita affannosa e confusa vita) ma lei,
mentre toglieva i tuoi vestiti dalla lavatrice (è molto bella la tua nuova t-shirt dell’Inter, ottima scelta!) mi ha guardata e ha detto: “Grazie per l’aiuto che hai dato a Y. Io pensavo fosse sufficiente ed invece è stato bocciato”. Non sono riuscita a tornare né dalla frittata
né dal treno che non mi aspetta mai. Non ce l’ho proprio fatta. Sono rimasta in piedi, tra il lavandino e l’asciugatrice, e ho lasciato che mi raccontasse, nel suo italiano incerto, la storia della tua bocciatura.
Caro Y. Io lo so bene cosa stai provando. So bene come
(Tweet lungo e parecchio noioso. Ma voi ci siete allenati; alla mia noiosità.)
“Uno, nessuno e centomila” è stato il mio libro formativo e quello grazie al quale ho dato senso alle mie ombre.
I miei alluci sono stati il naso di Vitangelo Moscarda, quelli che per me sono
sempre stati oggettivamente sgraziati ma mai oggetto di accurate riflessioni. Per me, i miei alluci, sono sempre stati “come quelli di mamma e nonna”. Scientificamente “alluci valghi” per le mie compagne di nuoto “brutti”. Non ho mai sofferto troppo per queste
prominenze. Piuttosto ho sofferto scoprire che chi pensavo di essere in realtà non era ciò che gli altri vedevano di me. Insomma, come Moscarda io poi ci ho perso anni a convincermi che brutti sono brutti ma che è anche sciocco mettersi in discussione basandosi sugli alluci.
Se esistesse un’etimologia spiccia e creativa il verbo ‘amareggiare’, per me, sarebbe composto da ‘amare’ e ‘reggiare’ ovvero l’azione che settori come la logistica identificano in ‘legare, avvolgere un pacco o una paletta con una striscia di metallo o plastica così da renderli
sicuri’. Ed allora ‘amareggiare’ smetterebbe di essere un verbo sconsolato e finalmente potrebbe vivere una vita più colorata, più romantica. Ed allora ‘amareggiare’ diventerebbe ‘legare, fissare un amore per non farlo cadere, per non farlo scivolare, per non perderlo’
ricordando sempre che reggiare non significa ‘ingabbiare’ o privare di libertà poiché la reggia, quella striscia metallica o di plastica, con le forbici si può tagliare. Ed allora dire a qualcuno ‘sono amareggiata’ potrebbe significare ‘ho un amore legato a te. Lo tengo stretto;
Hai mai pensato di che colore potrebbe essere il cinque? Intanto bisogna io ti dica che secondo me tu sei un cinque. Perché sei morbido ma anche freddo. Sei preciso ma anche un po’ impreciso. Sei di cuore; ma anche granitico. Sei versatile, incerto, un po’ metaforico, un po’
difettoso con gli ingranaggi affettivi. Un po’ come il cinque. Difettivo, primo, primo sicuro, congruente e dispari. E di quale colore, se non il blu, potrebbe mai essere il cinque? Di nessun altro, direi. Che siamo tutti abituati a dire ‘blu notte’, ‘blu cielo’, ‘blu mare’ e mai
nessuno dice invece ‘blu come il cinque’ perché nessuno lo ha mai visto un cinque colorato di blu.
E forse mai nessuno ha nemmeno visto davvero te, ha mai visto chi sei quando sei un cinque. E forse mai nessuno ha nemmeno mai visto un cinque, ora che ci penso. Si vedono le cinque
Buonasera Signor E., lei non mi conosce ma io un po’ conosco lei.
Ho conosciuto suo figlio M. diversi anni fa. Quando si è presentato qui, a scuola, mi è piaciuto subito. Era triste, come me. Aveva questi suoi occhi color tristezza, che lei conosce bene, che mi hanno subito
molto colpita perché in contrasto con questa sua aria solo apparentemente spavalda, allegra, estroversa.
Lei mi perdonerà, se le scrivo io. Ma conosce M., sa che lui con le parole non ci va molto d’accordo. Così come lei, vero? E quando il tarlo dell’ incomunicabilità si
infila tra due persone è davvero difficile farlo uscire. M. ha frequentato questa scuola per 4 anni. Abbattuta la prima e naturale diffidenza poi si è lasciato andare e mi ha raccontato di quanto bene le vuole, di quanto bene le vorrà. Di quanto difficile sia stato il vostro