Certo che sapevo di poter essere un bersaglio della mafia.
Davanti ai contadini che avevano sfilato per le vie di Corleone gridando “Terra per tutti” c’ero io, malgrado la mia giovane età.
Avevo 34 anni, sindacalista, l’uomo che turbava il sonno al boss Don Michele Navarra.
Don Michele Navarra, capo di Luciano Liggio.
Una bella coppia.
Nella primavera del 1948 i contadini del feudo Drago, guidati da un giovane sindacalista come me, turbavano il sonno di Navarra e dei suoi scagnozzi.
Gli oppressi si stavano ribellando, finalmente.
Mi detestava non solo per quello.
Da segretario della locale sezione combattenti e reduci gli avevo rifiutato il titolo di socio onorario.
«Lei non è stato combattente, tanto meno reduce». Un rifiuto che non mi aveva mai perdonato.
Non mi importava, avevo altro a cui pensare.
Nato il 2/01/1914 a Corleone, nella II guerra mondiale prestai servizio nel Regio Esercito sui monti della Carnia, in Friuli-Venezia Giulia, con il grado di caporale prima, poi caporal maggiore e infine di sergente.
Dopo l’8 settembre mi unii ai partigiani delle Brigate Garibaldi
Mi unii al sindacato dei braccianti agricoli nel 1943 e iniziai a organizzare gli agricoltori per migliorare le loro condizioni di lavoro e lottare contro lo sfruttamento. Non solo.
Avevo dato pure manforte a un gruppo di ex partigiani aggrediti da una pattuglia di mafiosi.
La mafia non mi intimoriva.
A tal punto che un giorno presi Luciano Liggio per il bavero della giacca e lo appesi a una cancellata con delle punte acuminate.
Dovevate vedere la sua faccia.
Chi è che ha detto pochi giorni fa che con la mafia si deve scendere a compromessi?
Placido Rizzotto, questo il suo nome, partigiano e socialista, uscì di casa il 10 marzo 1948.
Erano le 18 e si avviò in direzione di una «trazzera» (strada di campagna per il transito degli animali). L’ultima volta fu visto verso le 22.30 in compagnia di tale Pasquale Criscione.
Uomo appartenente alla famiglia del boss Navarra.
Fu lui ad attirarlo in una trappola.
Da quel momento di lui si perse ogni traccia.
Qualche giorno dopo un giornale di Palermo pubblicò la notizia che un pastore dodicenne era in grado di dare notizie sulla sparizione di Placido.
Il bambino si chiamava Giuseppe Letizia e si trovava ad accudire il proprio gregge nelle campagne in cui era avvenuto, a parer suo, il delitto.
Aveva visto alcuni uomini uccidere Rizzotto rimanendo sconvolto.
Il padre lo aveva trovato che delirava.
E lo aveva portato in ospedale.
Il primario dell’ospedale era proprio lui, il boss Don Michele Navarra.
In preda a febbre alta il pastorello aveva raccontato di aver visto uccidere il Rizzotto.
La sua testimonianza non arrivò mai in tribunale. Dopo un’iniezione praticata dal dottor Ignazio Aira, Giuseppe morì.
Ufficialmente la morte fu provocata da una tossicosi. Molti i dubbi. Mai fugati.
Il dottore che gli aveva praticato l’iniezione espatriò poco tempo dopo.
Il 26 marzo il quotidiano “La Voce della Sicilia” scrisse che Rizzotto fu caricato su una Fiat 1100, la stessa auto di Liggio.
Furono i carabinieri di Corleone a denunciare Liggio (che nel frattempo era sparito) e tre complici, per sequestro di persona.
Il 30 settembre il giudice istruttore prosciolse Liggio e gli altri.
Al comando di quei carabinieri c’era lui, Carlo Alberto dalla Chiesa
L’arresto di due mafiosi fu fondamentale.
Rivelarono che era stato Liggio a uccidere Placido per poi gettare il corpo in una voragine.
Grazie a un giornalista, travolto da un treno pochi giorni dopo, il 13 dicembre i carabinieri ritrovarono il luogo dell’omicidio. E la voragine.
Sul fondo furono ritrovati i resti di tre cadaveri.
Per esplorare a fondo la grotta sarebbe stata necessaria una spesa di un milione e mezzo, ma la Corte d’Assise di Palermo non ritenne necessaria tale spesa.
E data la mancanza della prova certa assolse tutti, Liggio compreso.
Nel 2009, in quella voragine di Rocca Busambra a Corleone, furono ritrovati resti umani.
Nel 2012 l’esame del DNA, comparato con quello estratto dal padre di Placido, Carmelo Rizzotto, morto da tempo, confermerà l’appartenenza al sindacalista siciliano dei resti rinvenuti.
Nella foiba, profonda 50 metri, furono trovati altri resti umani e i resti del mulo usato per trasferire il cadavere di Placido.
Sono stati ritrovati anche dei filamenti di cuoio (forse le redini del mulo) e una moneta da 10 centesimi coniata negli anni ‘20
"Nel 1948, Rizzotto venne ucciso dalla mafia siciliana per il suo impegno sindacale. Il suo assassinio fu un evento significativo e scosse profondamente l'opinione pubblica italiana, contribuendo a sollevare l'attenzione sulla presenza e l'influenza della mafia nell'isola".
In quegli anni furono uccisi, solo in Sicilia, ben 47 capi del movimento contadino.
Dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri, il 24 maggio 2012 a Corleone (PA), si sono volti solenni funerali di Stato per Placido Rizzotto
Dopo la morte di Rizzotto il suo posto fu preso dal politico comunista Pio La Torre che Dalla Chiesa conobbe proprio in quella occasione.
Pio La Torre verrà ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982. Carlo Alberto dalla Chiesa verrà ucciso il 3 settembre dello stesso anno.
“Non si nasce schiavi o padroni; chi ci vuole diventare ci diventa. Noi dobbiamo restare uniti, compagni, perché da soli non si cambiano le cose.
Perché da soli non si cambiano le cose”.
(Placido Rizzotto)
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Qualcuno ha detto recentemente, riguardo la mafia, che "In Sicilia servono compromessi, tutti lo sanno”.
Si sbaglia.
Perchè se vuoi sconfiggere la mafia non puoi scendere a compromessi.
Se lo fai sei solo complice.
Con la mafia non si tratta.
Mai.
Lo so bene. Lo sapevamo bene. Intendo io e mio padre.
Lo dimostra il fatto che nel settembre 2014, a Siracusa, hanno danneggiato la lapide che commemorava proprio mio padre.
L'hanno tolta dal supporto metallico su cui si ergeva e l'hanno distrutta in mille pezzi.
Mi chiamo Giuseppe Francese.
Mio padre Mario era nato a Siracusa il 6 febbraio 1925, terzo di quattro figli.
Finito il ginnasio si era trasferito a Palermo a casa di una zia, la sorella della madre.
Ciò per poter completare il liceo e poi frequentare l'Università.
Un giorno nella foresta scoppiò un gigantesco incendio: animali ed uccelli fuggirono impauriti.
Mentre tutte le razze raccolte si disperavano e si lamentavano della loro cattiva sorte, il colibrì volò verso il fiume e raccolse una goccia d’acqua.
Tanta quanta ce ne stava nel suo becco.
Ritornando verso l’incendio, gli altri animali lo derisero dicendo: “Ma cosa fai?”, gli chiesero.
Il piccolo colibrì, paziente, rispose: “Faccio quello che posso!”
E fu proprio per quel “faccio quello che posso” che mi premiarono.
De Amicis avrebbe fatto di noi personaggi da libro “Cuore”.
Era il 22 novembre del 1954 quando in Campidoglio assegnarono i Premi della Bontà.
Un premio per Dario Tosi, 11 anni.
Aveva portato a spalle a scuola tutti i giorni, per un chilometro, il suo compagno malato alle gambe.
Effettivamente non ho fatto nulla di speciale.
Forse hanno ragione coloro che dicono che non ho fatto niente per avere un riconoscimento.
Non ho salvato nessuno e non ho fatto nessun gesto eroico.
Ma anche solo ricordare cos'è accaduto quel 27 luglio 1993 è devastante per me.
Oggi tutti ricordano quel giorno.
E quei morti.
Come è giusto.
I vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno.
Ricordano Moussafir Driss, quel povero marocchino che dormiva sulla panchina.
E anche lui, l'agente di polizia municipale Alessandro Ferrari.
Povero Alessandro.
Lui era di turno proprio quella sera .
Doveva essere una serata come tante. Invece. Alessandro era nato a Gandino in provincia di Bergamo e aveva trascorso l'infanzia con il padre Agostino, sarto, e la mamma Elisabetta Moro.
Questa è una storia che racconto ogni anno.
Falcone e Borsellino non verranno mai dimenticati. Abbiamo dedicato loro piazze, vie e monumenti.
Alle vittime invisibili niente, o molto poco.
Giusto quindi mantenere viva la loro memoria.
Almeno fino a quando Mister X me lo permetterà
Ci sono date che è impossibile dimenticare.
Per esempio il 19 luglio, una settimana fa.
In quel giorno, nel 1992, la morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.
Poi ci sono date spesso dimenticate, come oggi, 26 luglio.
Oggi è il 26 luglio 1992.
Il 19 luglio scorso in via D'Amelio hanno perso la vita in un attentato il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.
I loro nomi: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
L’amnistia Togliatti fu una misura di riconciliazione molto generosa, che non venne presa da nessun altro Paese dell’Europa occidentale.
Certo, alla vigilia del referendum monarchia-repubblica, (2 giugno 1946) i voti dei fascisti fanno comodo.
Fascisti che ritengono la monarchia disonorata ormai con l’armistizio del 1943.
Togliatti si illude.
L’ex vicesegretario del PNF, il latitante Pino Romualdi dirà che: “…sarebbe stato almeno puerile che ci fossimo adoperati […] a favore della monarchia o della Repubblica”.
Insomma.
Loro erano per una linea di condotta che fosse utile soltanto a loro stessi.
Comunque.
In quel periodo in prigione ci sono circa 50 mila fascisti.
Il Partito d’azione e i vertici del Psi sono contrari ad ogni trattativa coi fascisti.
Nel Pci ci sono tendenze contrapposte
Le foto sono del mio collega David Sherman.
Il giorno?
Il 30 aprile 1945.
Il luogo?
Un’abitazione a Monaco, al 16 di Prinzregentenplatz. Io che faccio il bagno, mentre il proprietario dell’appartamento si toglieva la vita in un bunker di Berlino.
Non ero in quell’appartamento per caso.
Lo avevo fatto intenzionalmente.
Volevo lavarmi dallo sporco che mi aveva ricoperta durante la visita al campo di concentramento di Dachau.
Un bagno nella vasca di Hitler.
Mi chiamo Lee Miller e sono nata a Poughkeepsie, nello stato di New York il 23 aprile 1907.
Papà Theodore era un inventore tedesco con la passione della fotografia.
Una passione che mi aveva trasmesso fin da piccola.