“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino.
Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”. Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so.
Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile. Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli.
Mi crebbe amorevolmente nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi.
Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta.
Aveva strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
A quei tempi veniva imposto ad ogni figlio di nobile di entrare nell’esercito.
Non tutti però obbedivano.
Io, figlio di un generale, non potevo certo tirarmi indietro.
Ero bello e intelligentissimo.
E soprattutto modesto, vero?
Che volete.
Eccellevo in matematica, teologia, filosofia, storia, diritto, scienze sociali e fortificazioni.
Inoltre parlavo correttamente il francese, il polacco, il tedesco, lo svedese, l’inglese e il latino.
Ho esagerato.
Il latino sì, ma con qualche difficoltà.
Nel 1761 entrai ufficialmente nell’esercito.
Bruciando le tappe.
Nel 1762, già capitano, venni assegnato al reggimento di fanteria sotto il comando del grande Aleksandr Vasil'evič Suvorov.
Mi feci notare in Polonia, quando inseguimmo i polacchi fino in territorio turco.
Nel 1768 la Turchia dichiarò guerra alla nuova Imperatrice Caterina II.
Ero già maggiore quando con le truppe russe occupammo Bucarest.
L’impero turco non era più quello di una volta, ma attaccavano sempre urlando, e quello spaventava i miei soldati.
Per meriti venni trasferito allo stato maggiore di Rumyantsev.
Lui aveva solo 43 anni, ma vi garantisco che era un genio nell’arte della manovra.
Mi insegnò che non bisogna mai dare battaglia se non si è sicuri di vincere.
Piuttosto arretrare, temporeggiare.
Una carriera folgorante la mia.
Ma la combinai grossa quella sera con gli amici in un locale di Bucarest.
Ero ubriaco e feci il verso a Rumyantsev.
La sua camminata legnosa e rigida.
Lo presi in giro, insomma.
E qualcuno glielo andò a riferire.
Giustamente mi allontanò.
Finii alla Seconda Armata del principe Dolgorukov, che combatteva i Tartari.
Fu sulle coste della Crimea che venni ferito alla testa. Guarii in fretta, ma cominciai ad avere dei terribili mal di testa.
Ok, devo andare veloce.
Passerò oltre la peste del 1773, e il giro in Europa.
E Berlino da Federico il Grande e a Londra, dove venni a sapere del Generale Washington.
(Dal 1774 al 1783 Washington combatterà quattordici grandi battaglie, vincendone solo sue. Ma vincerà la guerra)
In seguito mi torneranno in mente le parole di Rumyantsev.
Nel frattempo ero tornato sotto il comando di Suvorov in Crimea.
Nel 1778 avevo sposato Ekaterina Bibikova che mi avrebbe dato sei figli.
Cinque femmine e un maschio, morto quasi subito.
E poi la morte di Caterina II.
E la salita del trono di Paolo.
Quello era pazzo e non mi vedeva di buon occhio.
Mi spedì lontano.
Ero comunque con lui a cena quando poi nella notte un gruppo di ufficiali lo uccise.
Toccò quindi ad Alessandro.
Che mi odiava ancora di più.
Certo, gli rimproveravo di essere a conoscenza della congiura.
Del parricidio, intendo.
Dovetti fuggire in un remoto villaggio.
Tra povertà e reumatismi.
Con un occhio che non sopportava la luce e continui e pesanti mal di testa.
Ricordate all’inizio quando vi ho parlato del “vecchio rapinatore”.
Nel 1805 mosse le sue truppe da Boulogne contro la coalizione austro-russa.
Con i suoi duecentomila uomini della Grande Armée progettava di sterminare gli austriaci prima dell’arrivo delle truppe russe.
Fu allora che Alessandro mi richiamò.
Diressi l’esercito russo velocemente verso l’ansa del Danubio chiedendo agli austriaci di aspettarmi. Invano.
Mack, con la sua armata di 51.000 austriaci, volle fare da solo.
Finì con l’andare da Napoleone a firmare la resa. Patetico.
Io mi ritirai invece lungo il Danubio.
Francesco I d’Austria si lamentò di me con Alessandro per essere scappato.
Uno stupido.
Riuscì a convincere Alessandro a spostare le truppe per combattere ad Austerlitz.
Due pazzi.
Sapevo esattamente come sarebbe andata.
Non avevo grandi poteri, ma non mi dimisi.
Volevo restare nell’esercito.
Non essendo ascoltato assistetti alla sconfitta sprofondato in una poltrona.
Con tre giovani fanciulle.
Lo avevo detto ad Alessandro di non combattere. Perchè non mi aveva ascoltato?
Finii con l'andare in pensione.
Ricordo quel 23 giugno 1812 quando gli uomini della Grande Armée superarono il fiume Niemen dilagando nella Polonia russa.
E chi ti va a chiamare il simpatico Alessandro per salvare il salvabile?
Esatto.
Il sottoscritto.
L’unico in grado di fermarlo.
Di fermare l’armata di Napoleone.
Come pensavo di batterlo?
Napoleone non si poteva battere, poteva solo essere ingannato.
Come prima mossa spostai l’esercito nei pressi del fiume Moscova dove sorgeva un piccolo villaggio chiamato Borodino.
Scrissi allo zar.
“La mia posizione è delle migliori. Qualsiasi cosa accada difenderò Mosca”.
A Borodino disponevo di 128mila uomini e 640 cannoni.
Napoleone, di 130mila uomini e 587 cannoni.
Pronti per la battaglia.
Essendomi dilungato, la battaglia e il seguito ve li racconterò domani nel prossimo thread.
Scusate, non mi sono ancora presentato.
Mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov, generale russo.
E il giorno della battaglia, il 7 settembre 1812, stavo per compiere 67 anni.
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Il giorno? Il 1° agosto 1922.
Il luogo? Milano.
Il fatto? Lo «sciopero generale» indetto dall’Alleanza del lavoro per spronare i politici a costituire un governo per ripristinare «la legge, la libertà, l’autorità» contro l’integralismo fascista.
Già, uno sciopero.
Sciopero “contro la Nazione e contro la logica” titolavano i giornali.
E l’opinione pubblica non era da meno visto che ormai tutto si risolveva in un aumento di impopolarità. “Scioperomania” la chiamavano.
Era uno degli argomenti che più facevano presa sulla gente.
Un’opinione pubblica che aveva sì qualche paura di quelle “colonne di fuoco” fasciste, ma vuoi mettere far uscire i tram dalle rimesse durante una serrata? Tornando a quello sciopero, la data doveva rimanere segreta.
Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/3MJ6sJY
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline.
Con quei bei cannoni tutti neri.
Il morale alto, pronti a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli".
Il primo sparo?
Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer.
Resistemmo fino all’impossibile.
Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata.
Un durissimo colpo.
(Bragation morirà il 12 settembre)
Odio essere chiamato Caligola.
Mi chiamo Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico.
Te lo ripeto Johannes, dato che alla tua veneranda età stai perdendo colpi.
Mi chiamo Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico. Gaio Cesare una volta diventato Imperatore.
O anche solo Gaio.
Chiaro?
«Scusa Cal… ops Gaio.
Datti una calmata, perché ti alteri?
D’altronde le fonti storiografiche sono scarse.
Una delle poche cose certe è il perché ti chiamavano Cal… quella roba lì, insomma.
Eri piccolo e giravi nell’accampamento di tuo padre indossando quelle calzature».
Ricordo.
I soldati di mio padre indossavano le caligae.
Essendo le mie molto piccole le chiamavano col diminutivo di caligulae.
Sono cresciuto tra i soldati che scherzando mi chiamavano in quel modo.
Però odiavo quel soprannome.
E lo odio tutt’oggi.
Quindi regolati.
Una poesia di Gianni Rodari recita: “Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra.”
Come dargli torto.
Nella guerra l’essere umano dà il peggio di sé.
In alcuni casi, andando oltre.
Lo chiamano “fuoco amico”.
Che poi di amico non ha proprio un bel niente.
E’ solo la dimostrazione, quando non è malasorte, di quanto l’intelligenza umana sia limitata.
Uccidere migliaia di persone “amiche” per negligenza o stupidità, quasi sempre restando impuniti.
Chi non ricorda la battaglia di Verdun.
La Prima Guerra mondiale aveva visto l’utilizzo di “armi chimiche” o gas asfissianti come venivano chiamati.
Ma erano anche lacrimogeni, urticanti e velenosi.
Ne avevano paura tutti.
Anche quelli che li utilizzavano.
So la fatica che hai fatto, Johannes.
Poche informazioni, niente biografia, niente ritratto, la mia figura dimenticata, scomparsa nel nulla.
E quella data poi.
La mente va sempre alla rivoluzione industriale, o alle prime leghe emiliane.
Ma tutto ebbe inizio molto tempo prima.
«Lo so. Qualche secolo prima.
Torniamo al 1333, un anno importante per Firenze. Con i suoi centomila abitanti festeggiava il compimento di un’opera straordinaria come la cerchia muraria.
Mancava ancora il campanile al nuovo duomo, ma la sua costruzione stava per iniziare».
Dante era morto e Giotto era su con gli anni, ma non erano gli artisti i protagonisti della vita pubblica di Firenze.
Erano altri.
Il loro motto?
“In nome di Dio e di ghuadagno”.
Li chiamavano “gli uomini dai piedi polverosi”, perché erano sempre in giro per il mondo: i mercanti.
Erano membri di una piccola comunità religiosa cristiana, ma in Iran quella è una religione considerata impura, e così erano fuggiti da quel Paese.
Lui, la moglie e le loro due bambine di 7 e 11 anni. Destinazione Australia.
Pensando ad un futuro migliore,
Erano finiti in quel deserto, precisamente nel centro di detenzione per migranti di Woomera.
Sì, proprio quella, la Zona Proibita.
Grande come l’Inghilterra, dove si erano svolti tra il 1955 e il 1963 dei test nucleari condotti proprio dal Regno Unito.
E gli aborigeni che abitavano quella zona?
Presi di peso e trasferiti in altre regioni.
Comunque loro quattro erano scappati da un inferno, l'Iran, ed erano finiti in un altro inferno.
Forse peggiore.
Un centro per rifugiati gestito da una compagnia privata.