Mi chiamavano “La fotografa dei mostri” e la cosa mi faceva letteralmente imbestialire.
Come è possibile chiamare “mostro” un essere umano?
Non è concepibile.
Che avrei dovuto fare?
Continuare ad essere una fotografa di moda?
Era stato l’incontro con la fotografa Lisette Model ad indirizzarmi verso quel tipo di fotografia.
Guardare un mondo diverso con altri occhi.
I miei occhi.
Perché quello era il mio mondo.
Lo avevo capito fin da piccola.
Io, e la mia cronica infelicità.
Mi chiamo Diane Nemerov e sono nata a New York il 14 marzo 1923.
La mia famiglia era proprietaria di una catena di negozi di pellicce, chiamata "Russek's".
Il nome di mio nonno.
Papà amava la pittura e fu naturale per me imparare a disegnare.
Avevo 14 anni quando lo conobbi.
Lui aveva 19 anni e faceva il commesso in uno dei nostri negozi.
Si chiamava Allan Arbus e lo sposai appena compiuti 18 anni.
Papà non la prese bene.
Sua figlia con un commesso.
Mi parlò di un “livello sociale inadeguato”.
Fu Allan ad insegnarmi i primi rudimenti della fotografia.
Ricordo che il nostro primo lavoro insieme fu proprio per i Grandi Magazzini di mio padre.
Durante la seconda guerra mondiale mio marito fece il fotografo per l’esercito.
Il nostro primo figlio Doon nacque il 3 aprile 1945. “Diane & Allan Arbus” si chiamava il nostro studio di fotografia.
Furono anni di grande lavoro.
Le migliori riviste volevano le nostre fotografie.
In quegli anni conobbi un giovane regista, Stanley Kubrick.
Quando nacque Amy nel 1954 la relazione tra me e Allan cominciò a deteriorarsi.
Fino alla separazione, avvenuta nel 1957.
Ora ero sola. Con le mie due bambine.
L’incontro con la fotografa Lisette Model fu determinante.
Lei diventò la mia migliore amica.
Fu lei a spingermi verso quel tipo di fotografia.
Fui io a scendere a scendere in quella parte che molti consideravano “i bassifondi della società”.
Nei sobborghi poveri, tra gli emarginati.
Vidi per la prima volta la povertà e la miseria.
Quella vera.
La gente distoglieva lo sguardo da quelle persone.
Io non riuscii più a staccare gli occhi da loro.
Dallo sgradevole, dal fastidioso, dall’ imbarazzante.
Insomma.
Dal “diverso”.
I miei soggetti preferiti diventarono le persone affette da deformità fisiche o psichiche.
Gente che aveva tutto il diritto di avere un loro spazio nella società.
Fu così che iniziai quel lavoro
Era stato Emile De Antonio a farmi vedere quel film.
“FREAKS”del 1932 di Tod Browning
Il film era ambientato nel mondo del circo ed interpretato da veri "fenomeni da baraccone".
Così li chiamavano.
L’ho visto e rivisto centinaia di volte.
L’altra faccia della normalità.
Nel frattempo ero passata da una Nikon a una Pentax.
La mia prima mostra fu un clamoroso insuccesso. Erano solo tre le fotografie esposte al MoMA (Museum of Modern Art) di New York.
Non fu l’indifferenza della gente a farmi soffrire. Furono gli sputi su quelle fotografie.
Le mie fotografie.
La mia depressione non la prese bene.
Due anni dopo il MoMA ci riprovò.
Con 30 fotografie questa volta.
E fu un incredibile successo.
Ma fu allora che cominciarono a chiamarmi “La fotografa dei mostri”.
Assurdo.
Continuai a fotografare personaggi tristi e deformi dei piccoli circhi di paese.
“Il ragazzo della fotografia si chiama Colin Wood. Come lo so?
Perché sono io quel bambino.
Diane mi incontrò in Central Park" in un momento di esasperazione.
È vero, ero disperato.
I miei genitori avevano divorziato.
Ero solo e arrabbiato.
Osservate la rabbia nelle mie mani”.
Diane Arbus venne trovata morta nella vasca da bagno con le vene tagliate e flaconi di barbiturici vuoti.
Aveva quarantotto anni.
Non lasciò nessun biglietto.
Solo una pagina del diario con la data del 26 luglio e una scritta: “Ultima cena”.
Il suo corpo venne ritrovato due giorni dopo, il 28 luglio 1971.
La sua amica Lisette Model confidò in seguito di aver ricevuto una lettera con le spiegazioni del gesto.
Non ha mai voluto rivelarne il contenuto.
Diane Arbus, la donna che volle mettere in mostra ciò che la società voleva nascondere.
La donna che passò dalle copertine satinate di una società agiata, a quella parte di società fatta di emarginati.
Perché con loro sentiva di avere un legame speciale. Perchè con loro era viva.
“Lavoro a partire dalla stranezza. E con questo intendo che non mi piace predisporre le cose. Se mi trovo di fronte a qualcosa, invece di sistemarla, sistemo me stessa.” (Diane Arbus)
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
Nei due thread precedenti abbiamo raccontato della Conferenza di Yalta.
Abbiamo terminato con la morte di Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, avvenuta il 12 aprile 1945, stroncato da emorragia cerebrale a 63 anni.
Venne sepolto il 15 aprile nel «giardino delle rose rosse.
Il vice presidente Truman in quel momento era al Senato.
Corse alla Casa Bianca e fu la moglie del Presidente a comunicargli la notizia.
Telefonò a casa e chiese alla moglie Bess e alla figlia Margareth di raggiungerlo.
Giurò come 33° Presidente degli Stati Uniti alle ore 19.
Truman, avvocato sessantunenne, è di origini modeste.
Suo padre un povero fattore.
Dopo essersi laureato in legge Truman si era arruolato, ma un difetto alla vista gli aveva precluso la carriera militare.
Diventato commerciante, nel 1921 era fallito. Diventando assicuratore.
Dove eravamo rimasti con l’ultimo thread?
Sì, ora ricordo.
Al 4 febbraio 1945 e l’inizio della Conferenza di Yalta.
È una domenica soleggiata e calda.
È Roosevelt a presiederla.
E la prima discussione è riservata alla Polonia, ai suoi confini e assetti.
Ha inizio il confronto.
La Polonia non è un argomento facile.
I sovietici hanno sì liberato il Paese, ma come governo provvisorio hanno istituito un «comitato di Lublino», naturalmente filo sovietico.
Un governo provvisorio subito in conflitto con l’altro governo polacco di Mikolajczyk, in esilio.
In esilio a Londra dal 1939 quando la Hitler e Stalin si erano spartiti la Polonia.
È Churchill a parlare per primo.
«Per la Polonia noi abbiamo sfoderato la spada […] Non potremo mai accettare una soluzione che non le garantisca la libertà, l’indipendenza e la sovranità»
L’assetto del mondo, una volta finita la guerra, era stato deciso una prima volta il 14 agosto 1941 con la «Carta Atlantica».
Stilata da Roosevelt e Churchill sulla corazzata «Prince of Wales».
Un documento dove si enunciavano i principi di cooperazione su cui fondare la pace.
In quel momento l’Europa era saldamente in mano ai tedeschi e gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra.
Ma in quella Carta c’era già l'auspicio che, dopo la distruzione finale della tirannia nazista, potesse sorgere una condizione mondiale dominata da pace e stabilità.
Nella Carta dichiaravano di non aspirare ad ingrandimenti territoriali.
Non volevamo mutamenti di confini non voluti liberamente dai popoli interessati, rispettando il diritto dei popoli all’autodeterminazione e ridando l’autonomia ai popoli che ne erano stati privati.
Era il 1695 e la nave su cui ero imbarcato, la Victoire, aveva attraccato al porto di Napoli in attesa di partire per le Antille.
Pensai bene di recarmi a visitare Roma, magari sarei riuscito a fare un saluto al Santo Padre.
Mi chiamo Oliver Misson, figlio di un nobile di Provenza, con la passione per l’avventura.
Per questo avevo abbandonato l’accademia militare per imbarcarmi sulla nave da guerra francese Victoire comandata da un mio parente, il capitano Fourbin.
E fu proprio a Roma che conobbi quel frate italo-domenicano, tale Caraccioli.
Aveva abbandonato il saio, troppo rigida e devota ai potenti la sua vita.
Aveva così deciso di girare il mondo per propagandare le sue idee.
Idee.
Più che idee un sogno.
Che ci faccio fuori dalla chiesa in Piazza Don Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma?
Non mi lasciano entrare in chiesa.
O meglio.
Non ci lasciano entrare in chiesa.
Come è possibile?
È possibile sì.
Forse è meglio che vi racconto quando, e come tutto è cominciato.
Non ero mai stata a Roma.
Erano gli anni 70 e da San Candido in Alto Adige ero venuta in gita con la parrocchia.
E poi quel pomeriggio, libero per tutti.
Io ero sola.
Nessuna amica, niente fidanzato, nessun familiare. Andare da sola per Roma non fu una bella idea.
Perdersi fu un attimo.
Ricordo che fu lui ad avvicinarsi.
Gli chiesi come arrivare a Piazza Venezia.
Fu il mio accento a tradirmi.
Tedesca?”, mi chiese.
No”, risposi, “vengo dall’Alto Adige”.
“Ah, dove prendete in giro gli italiani!”.
La nostra storia d’amore iniziò quel giorno.
Da bambino volevo giocare a calcio.
Come tutti i bambini.
Ma tirare calci al pallone non era facile per uno come me, e non solo perché gli altri bambini mi ignoravano.
E neppure perché mi prendevano in giro.
Il motivo era un altro.
A tre anni avevo contratto la malaria.
E quando in Nigeria ti capita di prendere la malaria ti può andare anche peggio.
Per esempio venire curato in una clinica di fortuna e al risveglio ritrovarsi con il sistema immunitario compromesso.
Tornai a casa con la poliomielite che mi aveva paralizzato dalla vita in giù.
Sapete cosa accade ai bambini diversamente abili in Nigeria?
Di solito sono allontanati dalle famiglie e finiscono in strada a chiedere l’elemosina.
Non andò così per me, Dennis Ogbe, perché mio padre non avrebbe mai lasciato nessuno dei suoi figli a mendicare per la strada.