Quando entrai alla reale Scuola militare di Brienne-le-Château avevo solo 10 anni e l’incontro col direttore non fu certo tra i più amichevoli.
“Preferirei non annacquare la qualità del nostro corpo studentesco ammettendo qualcuno che non viene dalla Francia continentale”, disse.
Fu allora che mio padre andò su tutte le furie.
«Il ragazzo resta qui», gli urlò, «gli è stata assegnata una borsa di studio reale. Voi gli darete un’istruzione, come da accordi».
Capii in quel momento che per me non sarebbe stato un soggiorno sereno.
Parlavo pochissimo il francese e non ero certo ricco come i miei compagni.
Per questo mi presero di mira fin da subito.
Non provenivo dall’alta aristocrazia francese.
Mi sentivo italiano, toscano e parlavo la lingua materna, l’italiano appunto.
I compagni cominciarono subito a prendermi in giro. Nato in una terra che loro definivano “terra di selvaggi” da una famiglia della piccola nobiltà italiana. Mi chiamavano “la paille au nez”,“paglia al naso”.
Per loro ero solo uno straniero capitato in quella scuola solo per caso
Quando passeggiavo in cortile si scatenavano con battutine e scherzi da bulli.
Ero magro e a tavola spesso mi sputavano nella scodella dicendomi: “Mangia, altrimenti rimarrai un plebeo nanerottolo”.
Qualche volta reagivo.
E fioccavano i demeriti.
Tutti si prendevano gioco di me.
Mi stancai presto di essere "bullizzato", come dite voi oggi.
E lo scrissi a mio padre.
“Strappatemi da questa scuola” gli scrissi, ”oppure datemi i mezzi per sostenermi più onorevolmente, altrimenti vostro figlio continuerà ad essere lo zimbello di questi cafoni”.
La risposta di mio padre fu un deciso rifiuto.
Mi scrisse che non aveva altro denaro da destinarmi. Mi disse che essere un gentiluomo non dipende dai soldi.
Lo maledissi.
Come poteva rimanere indifferente di fronte al dolore di un figlio e a quello che doveva subire a scuola.
Fu Padre Dupuy, il mio tutore a Brienne, a convincermi.
Quella scuola era l’unica opportunità di ascesa sociale per le persone come me.
Uno dei pochi posti in Francia dove le persone con le mie origini potevano avere successo.
Capii in quel momento che il mondo era sì ingiusto, ma che potevo cambiarlo.
Il bullismo nei miei confronti intanto continuava. Ricordo che il bullo che guidava il gruppo si chiamava Alexandre de Fontaine.
Ma dovevo tenere duro.
In attesa del giorno che avrebbe cambiato tutto.
E quel giorno arrivò.
Un giorno che cambiò la mia vita.
Era l’inverno del 1783, avevo quattordici anni e il cortile della Scuola militare di Brienne-le-Château era ricoperto di neve.
Fu il bullo Alexandre ad avere l’idea.
Quella di organizzare una battaglia di palle di neve.
Due le fazioni.
A ciascun lato del campo.
Alexandre si mise a capo di una delle fazioni, scelse i ragazzi più grandi e grossi per sé e nominò proprio me a capo dei compagni rimasti.
Io, il piccolo “la paille au nez”, a capo di compagni mingherlini.
Eravamo una cinquantina.
Notai subito il loro sguardo incerto.
Essere comandati da me, da quel piccolo moccioso deriso e sbeffeggiato da tutti.
Capii all’istante che dovevo fare in fretta.
Stabilire alla svelta la mia autorità.
Ordinai di costruire una specie di castello di neve.
Lo dotai di difese, organizzate da alcuni studenti istruiti per bene.
E dopo la difesa, mi misi a capo della squadra d’attacco.
Creammo delle sfere di neve che disponemmo lungo il muro di cinta dietro la nostra base.
E poi istruii i mie “soldati” sulla tattica.
Fu allora che mi accorsi che tutti mi ascoltavano ammirati.
Avevo stabilito persino il riscatto dei prigionieri.
E poi le truppe di rincalzo, le riserve di munizioni.
In quel momento nessuno stava mettendo in dubbio la mia leadership.
L’amico Louis mi rimproverò di aver preso la cosa troppo sul serio
“E’ un divertimento”, mi disse.
“Il più grande divertimento sta nella vittoria” replicai. Poi urlai: «Ai vostri posti!»
Alle 12 doveva avere inizio la battaglia.
Osservai come Alexandre aveva organizzato la difesa
Un pollo.
Aveva fatto costruire un terrapieno circolare con una sola entrata.
Niente a che vedere con e mie difese.
E poi c’era la mia tattica d’assalto.
Ero orgoglioso di me stesso nel vedere come “i miei uomini” mi ascoltavano annuendo.
Anche quelli che mi avevano contestato
E alle 12 in punto...
«Fuoco! Fate fuoco!».
Come andò a finire?
Fu una vittoria su tutta la linea.
Catturammo lo stendardo rosso, obiettivo della battaglia, in poche ore.
A scuola avevamo sempre una lezione sulle antiche tecniche di assedio.
Da quel giorno Padre Dupuy mi invitò a raccontare alla classe come avevo vinto quella battaglia.
Quale tecniche avevo usato per vincere il mio primo scontro, la battaglia di palle di neve più famosa della storia.
Nei mesi seguenti nessuno si azzardò più a prendermi in giro.
Mi dedicai completamente allo studio.
Sull’imminente valutazione per un posto alla Regia Scuola Militare di Parigi.
Che avvenne nell’autunno del 1784.
Fu così che iniziò la mia carriera militare.
Sottotenente a 16 anni.
Ufficiale a venti.
Il resto lo trovate sui libri di storia.
Da piccolo mi chiamavano Nabulio.
Mia madre, Maria Letizia Ramolino, i francesi non li sopportava, al punto di non imparare mai la loro lingua.
Mentre papà i francesi li combatteva.
Famoso il suo discorso contro l'invasione francese del 1768, col suo grido "Vincere o morire".
Napoleone Buonaparte era nato ad Ajaccio, in Corsica, poco dopo la stipula del trattato di Versailles del 1768 dove la Repubblica di Genova lasciava mano libera alla Francia nell'isola.
Carlo Maria Buonaparte e Maria Letizia Ramolino facevano parte resistenza corsa.
Non sappiamo quanto il suo essere stato "bullizzato", come si dice oggi, abbia influito sulla sua vita.
Quel che è certo è che in quei giorni è nato in quel ragazzino un senso di rivalsa.
Che lo avrebbe portato sul tetto del mondo.
Lui, Nabulio, detto il “nanerottolo”.
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L'unica certezza è che non era sua intenzione.
Quella di riprendere i contatti col mondo esterno, intendo.
Ma in quel 5 marzo 1931, verso le quattro del pomeriggio, fu costretta a fare quello che non aveva mai fatto nei 24 anni precedenti.
Aprire la porta e chiamare aiuto.
"Cameriera, vieni qui! Corri! Mia sorella è malata. Chiama subito un dottore. Penso che morirà". Accorsero in tanti nella sua camera, nella suite 552 dell’Herald Square Hotel.
A cominciare dal direttore.
Poi arrivò il medico del vicino Hotel McAlpin.
E infine il becchino.
Sua sorella, miss Mary E. Mayfield, giaceva sul divano coperta da un lenzuolo.
Ed era ormai morta.
Quello che videro in quella stanza fu qualcosa di sconvolgente.
C’erano pile di giornali ingialliti in ogni angolo.
Scatole vuote di cracker, gomitoli, e carta d’imballaggio.
Basta sfogliare l’Annuario Pontificio 2023, che include Papa Francesco, per sapere che ci sono stati 266 regni dei pontefici.
Se non l’avete letto vi confiderò un segreto.
Ci sono stati 266 regni dei pontefici, ma non ci sono stati 266 Papi.
Poffarbacco, e come mai?
Perché nell’elenco io compaio ufficialmente per ben tre volte, tutte riconosciute come valide.
Non solo.
Voi pensate che Benedetto XVI sia stato l’unico Papa a dimettersi.
Invece si dimisero anche Clemente I, Ponziano, Celestino, Gregorio XII e…il sottoscritto.
Non solo.
Lo sapevate che nel 1046, caso unico, quattro Papi occuparono contemporaneamente il trono di San Pietro?
Furono Silvestro III, Gregorio VI , Clemente II e…il sottoscritto.
Dimenticavo.
Sono Papa Benedetto IX, nato Teofilatto.
“Te hominem esse memento” continua a ripetergli l’auriga dietro di lui.
“Ricordati che sei solo un uomo”.
Strani questi Romani.
Forse per evitare che l’Imperatore Aureliano, mentre viene acclamato dalla folla romana, si monti troppo la testa nella gloria di questo momento?
Grazie Johannes per avermi dato la parola.
Per raccontare, in questo momento particolare, quello che sono stata.
Un consiglio prima.
Oggi voi non avete l’auriga, ma un naso da pagliaccio in tasca farebbe comodo a qualcuno di voi.
Quando uno comincia a montarsi la testa...
Detto ciò, Roma è in festa.
Ci sono tutti, popolani e patrizi ad assistere al trionfo dell’Imperatore Aureliano sul suo carro imperiale per la via Sacra di Roma.
Ma tutti guardano me, e le catene d’oro che mi trattengono.
Non ho mai abbassato lo sguardo, neppure per un attimo.
Il progetto si chiamava “Carte du Cielè, atlante fotografico delle stelle.
A coordinarlo il direttore dell’osservatorio di Parigi, Amédée Mouchez.
Un progetto reso possibile dalle nuove tecniche fotografiche, come lastre ad emulsione in gelatina, molto sensibili e facili da usare
Dovete sapere che fino all’avvento della fotografia si era costretti a disegnare ciò che l’essere umano vedeva nell’oculare del telescopio.
Un lavoro lungo, soggettivo, dove spesse volte il disegno non rispecchiava esattamente la realtà.
Diciotto Osservatori con diciotto telescopi identici aderirono al progetto della "Carte du Ciel".
Ad ogni Osservatorio una porzione di cielo.
Tra gli osservatori era presente anche la Specola Vaticana.
Per analizzare 22.000 lastre fotografiche.
Mi chiamavano “La fotografa dei mostri” e la cosa mi faceva letteralmente imbestialire.
Come è possibile chiamare “mostro” un essere umano?
Non è concepibile.
Che avrei dovuto fare?
Continuare ad essere una fotografa di moda?
Era stato l’incontro con la fotografa Lisette Model ad indirizzarmi verso quel tipo di fotografia.
Guardare un mondo diverso con altri occhi.
I miei occhi.
Perché quello era il mio mondo.
Lo avevo capito fin da piccola.
Io, e la mia cronica infelicità.
Mi chiamo Diane Nemerov e sono nata a New York il 14 marzo 1923.
La mia famiglia era proprietaria di una catena di negozi di pellicce, chiamata "Russek's".
Il nome di mio nonno.
Papà amava la pittura e fu naturale per me imparare a disegnare.
Nella seconda metà dell’Ottocento le avevano misurate.
Il peso del cervello e le dimensioni del cranio? Inferiori.
La peluria facciale?
Inferiore.
Grandezza organi interni?
Inferiori.
Numerosi di globuli rossi?
Inferiori.
Per non parlare della brevità degli arti e dello scheletro
Quando scoprirono che le donne avevano qualcosa più dei maschi, come le pulsazioni, dissero che era la prova di un loro sottosviluppo.
E il tronco più lungo?
Vabbè, quello è il classico segno di infantilismo, dissero.
Caratteristica tipica dei bambini.
“Lombroso poi era andato giù duro.
“La donna non è criminale nella misura in cui lo è il genere maschile, ma non per maggiore moralità o buon senso; […] bensì in quanto incapace di essere criminale per mancanza di coraggio e di vigore fisico, nonché di intelligenza”