Lungo un viale della città di Częstochowa si può incontrare una panchina.
Non la solita panchina, ma una panchina speciale, con una scultura in bronzo.
Raffigura una figura femminile seduta, con un gatto ai suoi piedi.
La targa dice che è dedicata a Halina Poświatowska.
Che poi sarei io.
Avrei dovuto immaginare che la mia vita non sarebbe stata per niente facile.
Fin dall’inizio.
Ero appena nata e già erano cominciati i problemi.
I miei genitori volevano chiamarmi Halina, ma il parroco, nel certificato di nascita, scrisse Helena.
Il motivo?
Secondo lui Halina non era presente nell’albo dei santi quindi aveva proposto ai miei genitori uno simile, Helena.
E quello scrisse nel certificato.
Una volta a casa i miei genitori continuarono a chiamarmi Halina.
A loro piaceva quello.
E pure a me.
Mi chiamo Halina, nata a Częstochowa il 9 maggio 1935.
Papà e mamma me lo hanno assicurato.
Sì, perché nell’atto di nascita, per errore, è stata scritta la data del 9 luglio.
E così nei libri della Parrocchia di Santa Barbara, sul certificato di battesimo.
Non un buon inizio.
Della mia infanzia ricordo pochissimo.
Ricordo invece perfettamente quando nel 1945 la mia famiglia fu costretta a nascondersi in una cantina. Avevo 10 anni.
Rimanemmo lì, in quella stanza buia, fredda e umida, fino alla liberazione di Częstochowa.
In quel periodo mi ammalai.
Angina la chiamarono.
Era solo l’inizio.
Cominciai a stare male, molto male.
Allora non capivo, ora so che fu una infezione da streptococco a causarmi, prima una specie di artrite, poi quei problemi al cuore.
Endocardite, un’infezione al cuore, a quei tempi incurabile.
Così con la fine della guerra mi ritrovai malata e impossibilitata a frequentare la scuola.
Ero sempre stanca.
E sempre a letto.
Però riuscivo a studiare e così mi presentai come privatista agli esami.
Prima al Ginnasio poi al liceo femminile “J. Słowacki”, a Częstochowa.
Mamma mi era sempre vicina.
A casa e all’ospedale.
Ero al sanatorio di Kudowa quando conobbi Adolfo.
Io ero nata come Halina Myga.
Lui si chiamava Adolfo Poświatowski, pittore e studente della Scuola Superiore di Cinematografia a Łódź.
Avrete compreso che diventò mio marito. Esattamente il 26 giugno 1954.
Lo avevo conosciuto al sanatorio perché anche lui era malato di cuore.
Quanto poteva durare la mia felicità?
La nostra felicità?
Circa due anni, poi lui morì.
Fu un duro colpo, durissimo, ma non fu il solo.
Come vi ho detto ero molto malata e i medici mi dissero che al massimo sarei vissuta altri sei mesi.
Sei mesi di vita.
Era il 1956 e avevo pubblicato 2 poesie.
“Felicità” e “L’uomo dell’Annapurna”.
Fu il mio medico e amico prof. Julian Aleksandrowicz a notare del talento in me.
E fu lui a organizzare il tutto.
Un’operazione al cuore negli USA, gratuita, grazie alla comunità polacca americana.
Partii proprio mentre la più prestigiosa casa editrice di Cracovia, la “Wydawnictwo Literackie” pubblicava la mia prima raccolta di poesie: “Inno idolatrico”.
Fui operata.
L’operazione riuscì perfettamente e presi la decisione di rimanere a studiare allo “Smith College” di Northampton.
Poi nel 1960 seguii i corsi estivi alla Columbia University.
Avevo borse di studio e amici, ma avevo troppa nostalgia di casa.
Tornai in Polonia.
Mi iscrissi alla facoltà di storia e filosofia presso l’Università Jaghellonica di Cracovia, “la città più bella del mondo”.
Continuando a pubblicare poesie.
Prima “La giornata odierna” poi Ode alle mani”, nel 1966.
Nel 1967 la mia autobiografia in prosa “Racconto per un amico”.
Avevo cambiato ufficialmente e finalmente il nome in Halina.
Ma ero sempre stanca.
Io volevo stare bene.
E così nell’autunno dello stesso anno presi la decisione di farmi operare di nuovo al cuore, a Varsavia.
Pochi giorni dopo ero morta.
Era l’11 ottobre 1967 e avevo 32 anni.
Un amico poeta scrisse di me: “Era alta, esile, molto bella. Una figura in parte primaverile, in parte autunnale[…].il suo cuore era malato, camminava con cautela, quasi avesse sotto i piedi un sottile strato di ghiaccio, o una gran quantità di foglie appena cadute dagli alberi”
“E’ sorprendente come questa giovane poetessa amasse e stimasse la vita… Era un amore essenzialmente religioso…Questa donna, che ad ogni emozione, ad ogni palpito del cuore rischiava la vita, cantava l’amore indomabile, sensuale…”
“Era una poesia luminosa, chiara…eravamo tutti stupiti dai suoi versi. Non potevamo credere che ci fosse qualcuno che nell’arco di qualche mese, forse di un anno, potesse rivivere, nelle parole, nelle metafore, nelle bellissime immagini, tutta la sua vita”.
Johannes è innamorato della mia poesia.
Lo so.
E da molti anni.
Da quando, in Polonia per lavoro, decise di fare una passeggiata lungo quel viale e camminando incontrò quella panchina.
Non la solita panchina.
Una panchina speciale, dedicata a Halina Poświatowska.
Dedicata a me.
“Amo la vita, amico mio, e anche quando essa mi ha ferita al punto che per un breve istante ho desiderato morire, neppure allora l’ho tradita”.
(Halina Poswiatowska)
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Nei due thread precedenti abbiamo raccontato della Conferenza di Yalta.
Abbiamo terminato con la morte di Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, avvenuta il 12 aprile 1945, stroncato da emorragia cerebrale a 63 anni.
Venne sepolto il 15 aprile nel «giardino delle rose rosse.
Il vice presidente Truman in quel momento era al Senato.
Corse alla Casa Bianca e fu la moglie del Presidente a comunicargli la notizia.
Telefonò a casa e chiese alla moglie Bess e alla figlia Margareth di raggiungerlo.
Giurò come 33° Presidente degli Stati Uniti alle ore 19.
Truman, avvocato sessantunenne, è di origini modeste.
Suo padre un povero fattore.
Dopo essersi laureato in legge Truman si era arruolato, ma un difetto alla vista gli aveva precluso la carriera militare.
Diventato commerciante, nel 1921 era fallito. Diventando assicuratore.
Dove eravamo rimasti con l’ultimo thread?
Sì, ora ricordo.
Al 4 febbraio 1945 e l’inizio della Conferenza di Yalta.
È una domenica soleggiata e calda.
È Roosevelt a presiederla.
E la prima discussione è riservata alla Polonia, ai suoi confini e assetti.
Ha inizio il confronto.
La Polonia non è un argomento facile.
I sovietici hanno sì liberato il Paese, ma come governo provvisorio hanno istituito un «comitato di Lublino», naturalmente filo sovietico.
Un governo provvisorio subito in conflitto con l’altro governo polacco di Mikolajczyk, in esilio.
In esilio a Londra dal 1939 quando la Hitler e Stalin si erano spartiti la Polonia.
È Churchill a parlare per primo.
«Per la Polonia noi abbiamo sfoderato la spada […] Non potremo mai accettare una soluzione che non le garantisca la libertà, l’indipendenza e la sovranità»
L’assetto del mondo, una volta finita la guerra, era stato deciso una prima volta il 14 agosto 1941 con la «Carta Atlantica».
Stilata da Roosevelt e Churchill sulla corazzata «Prince of Wales».
Un documento dove si enunciavano i principi di cooperazione su cui fondare la pace.
In quel momento l’Europa era saldamente in mano ai tedeschi e gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra.
Ma in quella Carta c’era già l'auspicio che, dopo la distruzione finale della tirannia nazista, potesse sorgere una condizione mondiale dominata da pace e stabilità.
Nella Carta dichiaravano di non aspirare ad ingrandimenti territoriali.
Non volevamo mutamenti di confini non voluti liberamente dai popoli interessati, rispettando il diritto dei popoli all’autodeterminazione e ridando l’autonomia ai popoli che ne erano stati privati.
Era il 1695 e la nave su cui ero imbarcato, la Victoire, aveva attraccato al porto di Napoli in attesa di partire per le Antille.
Pensai bene di recarmi a visitare Roma, magari sarei riuscito a fare un saluto al Santo Padre.
Mi chiamo Oliver Misson, figlio di un nobile di Provenza, con la passione per l’avventura.
Per questo avevo abbandonato l’accademia militare per imbarcarmi sulla nave da guerra francese Victoire comandata da un mio parente, il capitano Fourbin.
E fu proprio a Roma che conobbi quel frate italo-domenicano, tale Caraccioli.
Aveva abbandonato il saio, troppo rigida e devota ai potenti la sua vita.
Aveva così deciso di girare il mondo per propagandare le sue idee.
Idee.
Più che idee un sogno.
Che ci faccio fuori dalla chiesa in Piazza Don Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma?
Non mi lasciano entrare in chiesa.
O meglio.
Non ci lasciano entrare in chiesa.
Come è possibile?
È possibile sì.
Forse è meglio che vi racconto quando, e come tutto è cominciato.
Non ero mai stata a Roma.
Erano gli anni 70 e da San Candido in Alto Adige ero venuta in gita con la parrocchia.
E poi quel pomeriggio, libero per tutti.
Io ero sola.
Nessuna amica, niente fidanzato, nessun familiare. Andare da sola per Roma non fu una bella idea.
Perdersi fu un attimo.
Ricordo che fu lui ad avvicinarsi.
Gli chiesi come arrivare a Piazza Venezia.
Fu il mio accento a tradirmi.
Tedesca?”, mi chiese.
No”, risposi, “vengo dall’Alto Adige”.
“Ah, dove prendete in giro gli italiani!”.
La nostra storia d’amore iniziò quel giorno.
Da bambino volevo giocare a calcio.
Come tutti i bambini.
Ma tirare calci al pallone non era facile per uno come me, e non solo perché gli altri bambini mi ignoravano.
E neppure perché mi prendevano in giro.
Il motivo era un altro.
A tre anni avevo contratto la malaria.
E quando in Nigeria ti capita di prendere la malaria ti può andare anche peggio.
Per esempio venire curato in una clinica di fortuna e al risveglio ritrovarsi con il sistema immunitario compromesso.
Tornai a casa con la poliomielite che mi aveva paralizzato dalla vita in giù.
Sapete cosa accade ai bambini diversamente abili in Nigeria?
Di solito sono allontanati dalle famiglie e finiscono in strada a chiedere l’elemosina.
Non andò così per me, Dennis Ogbe, perché mio padre non avrebbe mai lasciato nessuno dei suoi figli a mendicare per la strada.