“Le dittature, tanto di destra come di sinistra, non mi sono mai andate a genio. Purtroppo ci sono persone a cui piacciono i dittatori”.
Non mi tirai indietro quando fu indetto quel referendum.
L’esito era incerto.
Io molto conosciuto.
"Rey del metro cuadrado" mi chiamavano.
Era il 1988 e il mio Paese, il Cile, da anni era un paese triste che non sorrideva più.
Molti sparivano nel nulla.
La tortura era all’ordine del giorno.
Una continua violazione dei diritti umani.
Per quello intervenni in quel referendum, schierandomi pubblicamente per il NO.
La Costituzione entrata in vigore nel 1981 stabiliva che fosse effettuato un referendum al termine del primo mandato presidenziale.
Votare "SI" significava confermare Pinochet, il "No" avrebbe portato a nuove elezioni.
Come potevo tirarmi indietro?
Non lo avevo mai fatto.
Fin dall’inizio, da quel 11 settembre 1973.
Ci dovevamo radunare al campo di allenamento Juan Pinto Durán in vista dei mondiali.
Una volta arrivati, il commissario tecnico ci disse di tornare a casa.
Capimmo lungo la strada quello che stava accadendo.
C’erano soldati dappertutto.
La gente veniva arrestata.
E poi i caccia Hawker Hunter di fabbricazione britannica con bombe incendiarie sul Palacio de la Moneda, dove aveva sede il governo democratico di Salvador Allende.
Alle elezioni del 1973 avevo votato e appoggiato il Partido che che sosteneva Allende.
Di lui dissi: “Aveva i suoi difetti, come tutti, però era una brava persona che voleva fare del Cile un grande paese”.
Questa premessa era necessaria.
Per arrivare a parlarvi di una partita.
Uno spareggio tra noi e l’URSS che avrebbe consentito al Cile di andare ai mondiali di Germania del 1974.
All’andata era finita 0-0.
Il ritorno era previsto allo stadio nazionale di Santiago
Uno stadio magico per il calcio.
Diventato in quei giorni un campo di concentramento a cielo aperto, gli spogliatoi usati per le fucilazioni.
Lo sapevamo tutti.
Lo sapeva il mondo intero.
Per quello l’URSS si rifiutò di venire a giocare il ritorno.
Volevano un campo neutro.
La FIFA si rifiutò.“Siamo a andati visitare lo stadio ed è tutto a posto”, dissero.
Nessun dissidente prigioniero. I sovietici si sono inventati tutto.
Già.
Scopriranno anni dopo la verità.
Con i prigionieri nascosti negli anfratti e nei sotterranei dello stadio durante la visita
I sovietici si rifiutarono comunque di giocare.
Eravamo qualificati quindi.
Ma Pinochet voleva di più.
Il 26 novembre 1973 venimmo convocati per una partita.
Proprio con l’URSS.
Ma quale partita se i sovietici sono rimasti a Mosca?
Lo capimmo appena scesi in campo
I militari avevano riempito lo stadio di tifosi con la forza.
C’era tutto quello che serviva per disputare una partita di quel genere.
Noi giocatori del Cile, i tifosi, persino l’arbitro Rafael Hormazábal.
E c’era Pinochet in tribuna.
Con tutti i militari.
Il tabellone indicava la partita della qualificazione ai mondiali tra Cile e URSS.
C’era tutto.
Quasi tutto.
Mancava solo una piccola cosa.
In verità nemmeno tanto piccola.
Mancava la squadra avversaria.
Era stato Pinochet a mettere in scena quella farsa.
Una tristezza
Finì 1-0.
Avevo la palla, avrei voluto scagliarla lontano.
Invece la passai al capitano Francisco El Chamaco Valdés, figlio di operai, e militante di sinistra, che la mise in rete.
Per Pinochet un successo, contro il nemico comunista.
Quando Pinochet ci invitò nel palazzo Diego Portales poco prima della partenza per la Germania i miei compagni gli strinsero la mano.
“Avevo paura, ma lo dovevo fare".
Rifiutai di porgergli la mano.
E la pagai cara.
Dopo quei mondiali la mia avversione a Pinochet mi chiuse tutte le porte alla nazionale per qualche anno.
Fino ad arrivare a quella dichiarazione per il NO al referendum.
Fu in TV, quando una donna confessò di essere stata arrestata e torturata.
Fu lì che intervenni.
Come andò quel referendum?
Vinse il "NO", anche se con solo il 55,99%.
Quel NO mise fine alla dittatura costringendo Pinochet ad elezioni democratiche nel 1989.
Il "SI" al 44,01% dimostrò che “purtroppo ci sono ancora troppe persone a cui piacciono i dittatori”
Mi chiamo Carlos Caszely, detto "Rey del metro cuadrado".
Calciatore del Cile.
Chi era la donna andata in Tv a denunciare di essere stata sequestrata e torturata?
Quella sconosciuta e graziosa signora si chiamava Olga Garrido.
Mia madre.
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Due giorni fa Johannes vi ha raccontato la storia del calciatore cileno Carlos Caszelye e della partita fantasma disputata a Santiago su ordine di Pinochet.
Ricordando con dolore quell'11 settembre 1973 che cambiò la storia del Cile.
Ha solo accennato ai caccia Hawker Hunter di fabbricazione britannica che quel giorno sganciarono bombe incendiarie sul Palacio de la Moneda dove aveva sede il governo democratico di Salvador Allende.
Lui era lì.
Ma non era solo.
Io ero con lui, con il Presidente Allende.
Quando ero entrata nel Palazzo presidenziale quella mattina mai avrei immaginato quello che stava per accadere.
Che ci facevo nel palazzo?
Mi chiamo Beatriz, per amici e famiglia “Tati”.
Figlia del Presidente Allende.
Ero sul Manin, cacciatorpediniere della Regia Marina, all'alba del 3 aprile, a una trentina di miglia da Port Sudan dopo una navigazione di 270 miglia.
Fu lì che il convoglio fu attaccato da circa 70 bombardieri Bristol Blenheim ed aerosiluranti Fairey Swordfish.
In che condizioni era la flotta italiana nel Mar Rosso?
Mesa male.
Senza materie prime, senza nafta e pezzi di ricambio, munizioni, siluri e attrezzature.
E l'impossibilità
di ricevere aiuti dall’Italia.
In brutte condizioni, certo, ma a bordo c'erano marinai straordinari.
Da giorni le cose si stavano mettendo male per i cacciatorpedinieri italiani.
Potevano raggiungere in relativa sicurezza le coste dell’Arabia Saudita o dello Yemen,
neutrali, almeno nominalmente.
Ma tutti gli equipaggi si erano rifiutati.
Quando i duchi di Windsor gli fecero visita, nel 1937, lui li accolse vestito di un chimono blu, pantofole guarnite di pietre preziose, una cintura con un pugnale d’oro e anelli su tutte le dita delle mani.
Non fu l’unica stravaganza a dire il vero.
Dopo pranzò li invitò a giocare col suo meraviglioso trenino, quello che aveva nell’attico, in una sala lunga venticinque metri.
Non fu tanto il trenino a colpirli, ma l’aereo che sganciava bombe di legno sullo stesso trenino, che lui manovrava comodamente seduto in poltrona.
Era stato nel 1922 che aveva incontrato l'uomo esile.
Gli aveva offerto i propri servigi, e a quell’uomo non era parso vero di avere a fianco uno decorato con la medaglia “Pour le Mérite”, assegnata a chi aveva abbattuto almeno venticinque aerei nemici nella prima guerra mondiale
Quando ebbe inizio?
Esattamente il 6 gennaio del 1929, nevicava e faceva freddo.
Chi lo conosceva lo definiva “un essere insignificante”, ventinove anni, miope, tale da costringerlo a portale lenti molto spesse.
Proveniva alla classica famiglia borghese di Monaco di Baviera.
Lui ci aveva provato a fare carriera in ambito militare, ma non era andato più in là del grado di allievo ufficiale.
Essendo lui e la famiglia in difficoltà economiche aveva deciso di donare le sue braccia all’agricoltura.
Voleva diventare agronomo.
Per questo si era iscritto all’università.
Mettendosi subito in mostra.
Tranquilli, non come studente.
Tutti lo conoscevano perché alle feste universitarie si presentava sempre vestito da sultano turco.
Teneva un diario dove scriveva il nome delle ragazze che lo respingevano.
Vabbè, un po’ di ragione l’avevano.
Quelli che mi dicevano che forse era meglio per tutti se non avessi guidato quel mostro.
Dovevate vedermi alla guida.
Con i miei cappelli di Parigi, abiti blu con sfumature di vetro colorato e scarpe Buster Brown.
Un vero figurino.
L’unica cosa che ignoravo era quale pedale schiacciare.
E io per sicurezza li schiacciavo tutti.
Quando volevo fare una cosa nessuno riusciva a dissuadermi.
Nemmeno quando decisi di attraversare l’oceano per andare in Europa.
Lo stesso anno dell’affondamento del Titanic.
Ma io ero decisa a lavorare con lui, il professor Leonor Michaelis, noto biochimico tedesco.
Margaret Rossiter lo descriverà solo nel 1993.
Io, come tante altre donne, lo avevamo già provato sulla nostra pelle l’effetto da lei descritto.
L’effetto Matilda, intendo.
Che avrei dovuto fare? Ditemi, che avrei dovuto fare?
Peppino Impastato, ucciso due anni prima, lo aveva detto chiaro e tondo.
“E’ vero, la mafia uccide, ma il silenzio pure”.
Il silenzio e l’indifferenza possono uccidere.
Per questo avevo accettato quella proposta.
Ero un imprenditore all’epoca.
Gestivo con la famiglia un piccolo albergo, l’hotel “Riva Smeralda”, che si affacciava sul mare di Villagrazia di Carini, a pochi chilometri dall'aeroporto di Palermo.
Ad aiutarmi la mia bellissima famiglia.
Una famiglia serena e felice
Io, Carmelo Iannì, Giovanna mia moglie, e poi loro, i nostri tesori.
Liliana 18 anni, Roberta 16 anni, e la piccola Monica 11 anni, che ci aiutavano durante le vacanze estive.
Come tutti gli imprenditori ero fiero del mio lavoro e di quello che avevo creato.