#19luglio 1992, strage di via D’Amelio. Perdono la vita #PaoloBorsellino e i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
(Da @JohannesBuckler, Non esistono Piccole Storie: bit.ly/johannesbuckler)
(Da @JohannesBuckler, Non esistono Piccole Storie: bit.ly/johannesbuckler)
È una data che non si può dimenticare, un fardello insopportabile che scuote la coscienza di tutti i cittadini per quelle vittime innocenti della mafia. Sei martiri, a cui se ne aggiungerà poco dopo una settima. Dimenticata. Sconosciuta ai più. Ma facciamo un passo indietro.
4 settembre 1974. Sono nata a Partanna (Trapani). Una maledizione grava su di me fin da piccola. Triste destino, il mio: tutti i maschi a cui voglio bene vengono ammazzati dalla mafia.
1985. All’età di undici anni perdo mio padre, Vito Atria, mafioso, ucciso in un agguato. Alla sua morte mi lego molto a Nicola, mio fratello. Da Nicola, anch’egli mafioso, raccolgo le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna.
Ma nel 1991 anche Nicola viene ucciso. Sua moglie Piera, presente al momento dell’omicidio, denuncia i due assassini e collabora con la polizia. Così nel novembre 1991, decido di seguire le orme di mia cognata, cercando nella magistratura una qualche giustizia per quegli omicidi.
Mi presento alla Procura di Marsala insieme a Piera per testimoniare contro i mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala. A raccogliere le nostre testimonianze c’è il procuratore. Il suo nome è Paolo Borsellino.
Paolo Borsellino diventa per me come un padre. Le mie testimonianze fanno arrestare molti mafiosi e avviare un’indagine sull’onorevole democristiano Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco di Partanna. Denuncio persino il mio fidanzato Calogero, anch’egli nel “giro”.
Arriva il 19 luglio del 1992. Dopo le mie testimonianze, mi trovo a Roma, al numero 23 di via Amelia, sotto tutela del Servizio centrale di protezione, perché “testimone di giustizia”. Vivo isolata, costretta a frequenti cambi di residenza. Rinnegata anche dalla mia stessa madre.
26 luglio 1992. La morte di “zio Paolo”, avvenuta una settimana fa, ha infranto ogni mio sogno. Ha lasciato un vuoto che risucchia la mia vita. Mi rifiuto di guadare la televisione. Giro nervosamente per casa. Mi ripeto: «Ormai siamo fritti, ora non c’è nessuno che ci protegga».
Chiudo a chiave la porta. Spalanco le finestre e mi lancio. In pigiama, a piedi nudi. Un volo di sette piani, senza un grido. Soltanto un tonfo sordo che rompe il silenzio della strada deserta. Le mie paure hanno vinto.
Ai miei funerali, a Partanna, né mia madre né il paese partecipano. Dopo qualche mese mamma distruggerà con un martello la mia lapide posta sulla tomba di famiglia, per cancellare la presenza di una «Fimmina lingua longa e amica degli sbirri».
Per lungo tempo, la memoria di Rita non ha trovato pace, e per molto tempo la sua tomba non ha avuto una foto che ricordi la «picciridda». Seppellita nello stesso cimitero insieme ad alcuni di quegli uomini che aveva denunciato.
Questa è la storia drammatica di una ragazza di diciassette anni che per la prima volta aveva capito la «differenza tra le cose sporche in cui aveva vissuto e quelle pulite che aveva trovato». #RitaAtria. La settima vittima di via D’Amelio."
