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Esattamente un anno fa ero qui.

“Sveglia, sveglia! C’è qualcosa, correte su!”. Saltiamo giù dalle nostre cuccette, una scala per uscire dalla pancia della nave, un’altra scala per arrivare in plancia, e poi fuori sulla verandina. È buio, il sole non è ancora sorto (un thread)
Il marinaio Vincenzo sta inquadrando qualcosa nel binocolo - “C’è un gommone, ma sembra vuoto…” - e lo passa subito a Iasonas, il nostro soccorritore più esperto: “No, è pieno. Molto pieno”. Ed era così.


Erano tanti, erano troppi, erano tutti attaccati l’uno all’altro.
Erano in mare da due notti. Erano sfiniti, sporchi, assetati; puzzavano di benzina, di sudore, di tutto il resto. Erano novantotto. Erano di più, alla partenza dalla Libia: nove se li è mangiati il mare, prima che li trovassimo con la #MareJonio.
Quel 28 agosto abbiamo fermato la nave. Mentre venivano calati in acqua i gommoni di soccorso, io continuavo a pensare: “Sole, sorgi. Per favore, sorgi”. Al buio è tutto più difficile. L’alba ha illuminato le soccorritrici mentre si avvicinavano alla barca alla deriva.
Io, Francesca e Donatella, medico di bordo, aspettavamo davanti al portellone, la radio in mano. “Sta tornando il primo gommone…a bordo donne incinte e bambini”. I soccorritori facevano la spola. “Stiamo tornando. Donne incinte e bambini”. Ancora? “Stiamo tornando. Bambini”.
Lì ci siamo guardate: che cosa succede? Succede che, sui novantotto naufraghi soccorsi, due terzi erano donne incinte, bambini, minori soli. Il soccorso in mare deve essere veloce: più velocemente possibile devi portare i naufraghi a bordo, al sicuro.
Devi contarli, dividere quelli più sani dai feriti che hanno bisogno di assistenza immediata, chi ha i vestiti pieni di benzina deve aspettare di là, le donne e i bambini li mettiamo di qui, e chi ti casca in braccio appena Nino lo issa a bordo.
Chi ti dice subito “Merci!”, grazie, e chi invece non parlerà ancora per ore e giorni, e le coperte termiche, mezzo litro d’acqua a testa, una barretta energetica.
In due ore abbiamo aperto e chiuso il portellone della Mare Jonio: tutti a bordo.
Poi la doccia per tutti, gli abiti di ricambio che tiri fuori dalla pancia della nave, altra acqua, le visite mediche per tutti, le coperte per dormire. Il megafono: per dire a tutti che siamo una nave italiana, che non sapevamo dove saremmo sbarcati...
...ma certamente sarebbe stato un porto sicuro in Europa. Che per nessun motivo al mondo li avremmo riportati in Libia. Lì è scoppiato un applauso. Perché Libia oggi vuol dire morte, tortura, stupro, schiavitù. Non c’era un uomo che non portasse addosso i segni delle torture.
Non c’era una donna che non fosse stata violentata.

Erano vittime dei trafficanti. Erano schiavi in fuga. Erano bambini che avevano passato mesi in una cella puzzolente, colpevoli solo di essere nati. Colpevoli di essere neri.
“Eppure sembrano così in forma, quando sbarcano!”, dice qualcuno. Non sono in forma, ma sono forti. Perché solo i più forti sopravvivono. Gli altri sono crepati prima. Di stenti, in cella, come ci racconta uno.
Un altro ha visto morire un amico, gli hanno sparato in testa di fronte a lui, dopo avergli detto di chiamare la famiglia e mettere il vivavoce. Qualcuno dice “Ma se erano veramente prigionieri in Libia, com’è che gli hanno lasciato il cellulare?”. Per questo: estorsione.
Così la tua famiglia può sentire mentre sparano in testa al tuo compagno di cella, e manda altri soldi ai trafficanti per non farti fare la stessa fine. E i muscoli non se li sono fatti in palestra, ma ai lavori forzati.
24 ore dopo siamo arrivati al limite delle acque territoriali italiane e ci hanno consegnato un divieto di ingresso: tecnicamente la nostra nave era considerata “Passaggio non inoffensivo”, cioè arrecava “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato”.
“Non inoffensivo”: quelli col ciuccio in bocca. “Pregiudizio alla pace”: lui che ha dieci anni, minore non accompagnato. “Pregiudizio al buon ordine e alla sicurezza”: la donna incinta di uno stupro che sta piangendo tra le braccia di Caterina.
La ragazza che per passare il tempo, mentre aspettiamo in mezzo al mare che qualcuno ci faccia sbarcare, fa le treccine sulla testa di Fulvia. La donna che aiuta Daniela a cucinare il riso per tutti.
Il bambino più vivace, che voleva a tutti i costi un pesce, e che non si accontenta più dei disegni di pesce che gli ha fatto Fabrizio. Quei due lì che ridono mentre Mario li solleva, uno per braccio.
Quello che mostra a Stefano le cicatrici delle torture sulle braccia, la schiena, la pianta dei piedi. Il ragazzo che nello scorso anno è stato venduto tre volte come schiavo, tre volte si è ricomprato la libertà ed è stato messo su un gommone...
...tre volte è stato intercettato dalla cosiddetta Guardia costiera libica che l’hanno riportato nelle mani dei trafficanti, e alla quarta ha trovato noi, e adesso sorride mentre Luca ripete per l’ennesima volta: “No Libya”.
Alla fine sono sbarcati tutti. Qualcuno in barella, qualcuno costretto a saltare con il buio dalla nostra nave alla motovedetta della Guardia Costiera. Alla fine siamo sbarcati tutti, dopo cinque giorni dal soccorso.
E mentre eravamo in mare è cambiato il governo, e abbiamo sentito tante volte la parola discontinuità, l’abbiamo anche cercata con il binocolo, però una vera discontinuità - un anno dopo - la stiamo ancora aspettando. Ma questa è un’altra storia.
Erano novantotto, erano naufraghi, erano per due terzi donne e bambini, erano schiavi in fuga. E li abbiamo portati in un porto sicuro.
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