«Sono sei miglia al largo di Avezzano, altezza duemila piedi. Posso scendere?»
«Non c’è traffico. Scendete pure»
Sono quasi le 19. E’ una bella domenica e ho approfittato per fare un volo d'addestramento a bordo di questo stupendo Augusta Bell 205.
E’ un elicottero nuovo e moderno rispetto al vecchio Agusta Bell 47 G 3B-1 con cui ho operato per tanto tempo.
Quante missioni abbiamo compiuto insieme.
E quante vite ho salvato nelle oltre 3.500 ore di volo.
Le ricordo tutte, sapete? Quante vite di preciso? Parecchie. Basta contare gli omini stilizzati sulla carlinga del mio vecchio elicottero.
Dicono che sono un pioniere dell’elisoccorso in Italia. Vero. Le prime tecniche di salvataggio di persone in mare sono mie.
E come vi ho detto, per niente facile con quegli elicotteri. Con quella barella collocata all’esterno, per esempio.
E se avevi bisogno di un medico a bordo?
Qualcuno, quasi sempre il motorista, doveva rimanere a terra. Il cestello di recupero? Una mia idea.
«Mai vista tanta nebbia. Sono a mille piedi. Scendo ancora»
Ci mancava pure la nebbia. Con me a bordo ci sono il motorista VF Elio Magnanego, il pilota VF Ugo Vignolo ed il pilota civile Ugo Roda.
Un volo d’addestramento dopo il decollo dall’Aeroporto di Villanova d’Albenga.
Vi stavo dicendo dei miei salvataggi. Tanti.
Ogni volta che c'è un problema in mare io ci sono.
E non solo in mare.
Non sempre con successo, ma io ci sono sempre con il mio elicottero.
Non per niente mi chiamano “l’angelo custode sull’elicottero rosso”.
«Sono a 500 piedi, c’è nebbia, non vedo il mare. Non si vede niente!»
Sono diventato nonno da poco, sapete?
Ne ho fatta di strada per arrivare al grado di maggiore dei vigili del fuoco. Prima di diventare elicotterista ho preso persino il brevetto di Sommozzatore.
Ricordo quel 2 agosto 1961 quando chiesero il nostro intervento.
Di fronte i cantieri ANSALDO di Genova, sette operai erano a dodici metri di profondità.
Intrappolati dopo il ribaltamento di un cassone di cemento. Otto ore per farli salire. Sani e salvi.
Ho fondato, a Genova, il Nucleo Elicotteri dei VV.FF. specializzati in operazioni di soccorso.
L'ho detto e ripetuto più volte durante quella premiazione.
Due anni fa, come personaggio dell’anno, intendo.
Che avevo fatto solo il mio dovere.
Solo il mio dovere.
Quando?
Quel giorno, il 9 aprile 1970, quando scattò l’allarme.
Il mercantile London Valour, battente bandiera del Regno Unito era alla fonda.
Per via del fortissimo vento era andata a sbattere contro la diga foranea nel porto di Genova.
E stava affondando.
Non c’era tempo da perdere. Anche perché, avevo pensato, pilotine della guardia costiera, gommoni e pescherecci non potranno avvicinarsi con quel vento e con quei marosi. Troppo pericoloso.
Ricordo che la motovedetta CP 233 della Capitaneria di Genova riuscì ad avvicinarsi.
Io non ci pensai due volte.
Sapevo di rischiare la vita con quel vento e il mio piccolo elicottero AB 47 G "libellula".
Continuai a sorvolare la zona lanciando salvagenti ai naufraghi.
Ballavo, eccome se ballavo, ma era mio dovere essere lì. bit.ly/2LuTH9D
Oltre a me e alla motovedetta CP 233 del tenente di vascello Giuseppe Telmon e i suoi sette uomini, arrivò in soccorso anche il pilota Cap. Giovanni Santagata con la Pilotina Teti.
Fu lui a coordinare i soccorsi verso la London Valour.
Il London Valour, aveva cinquantasei uomini d’equipaggio e due passeggeri.
Tra questi Dorothy, la moglie del comandante della nave Edward Muir.
Ne salvammo trentotto. Tredici vennero recuperati morti dalle onde. Altre sette morirono in ospedale.
Tra le migliaia di persone che assistevano al naufragio e alle operazioni di salvataggio c’era anche Fabrizio De Andrè.
Volle immortalare quella tragedia in una canzone “Parlando del naufragio della London Valour”.
Le indagini appurarono le gravi responsabilità del capitano Muir. Le ricostruzioni della sua morte divergono. Sicuramente inghiottito dalle onde.
Una delle ricostruzioni vuole che si sia gettato in mare per salvare la moglie. Inutilmente. Morendo con lei.
«Siamo in difficoltà. Siamo in difficoltà»
Questo l’ultimo messaggio del maggiore Rinaldo Enrico alle 19.05 del 6 maggio 1973.
Poi più niente. Il suo corpo verrà recuperato molti giorni dopo insieme ai suoi compagni di volo.
Il Maggiore Enrico Rinaldo effettuava ogni tipo di salvataggio anche se in condizioni estreme.
Per questo era stato decorato molte volte al valore civile. Compresa una medaglia dell’Ammiragliato Britannico per il salvataggio degli uomini della London Valour.
Una lapide nei pressi della spiaggia di Vernazzola ricorda il maggiore Enrico e i suoi compagni.
“Non siete tornati dal mare per l'ora di cena, ai nostri cuori avete dato una gran pena. A te Maggiore Enrico e a tutti i tuoi compagni porteremo un fiore in mare per anni e anni”
Grazie a @groumarx55 per avermi suggerito di raccontare la storia del maggiore Rinaldo Enrico.
“L’uomo che vegliava dall’alto i genovesi in pericolo”.
E non solo i genovesi.
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Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema.
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni.
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali.
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
3 gennaio 1942 – Oggi si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti, assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
8 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
13 novembre 1942 – L’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal. E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Oggi è il 31 gennaio 1944.
E non ho molto tempo.
Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia.
Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves.
A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano.
Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore.
Nel 1926-27 un quinto posto.
Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.