So la fatica che hai fatto, Johannes. Poche informazioni, niente biografia, niente ritratto, la mia figura dimenticata, scomparsa nel nulla. E quella data poi.
La mente va sempre alla rivoluzione industriale, o alle prime leghe emiliane. Ma tutto ebbe inizio molto tempo prima.
«Lo so. Qualche secolo prima.
Torniamo al 1333, un anno importante per Firenze.
Con i suoi centomila abitanti festeggiava il compimento di un’opera straordinaria come la cerchia muraria.
Mancava ancora il campanile al nuovo duomo, ma la sua costruzione stava per iniziare».
Dante era morto e Giotto era su con gli anni, ma non erano gli artisti i protagonisti della vita pubblica di Firenze. Erano altri. Il loro motto? “In nome di Dio e di ghuadagno”. Li chiamavano “gli uomini dai piedi polverosi”, perché erano sempre in giro per il mondo: i mercanti.
«Erano ricchi, prevalentemente borghesi, si facevano chiamare “popolo grasso”, artefici della fortuna economica di Firenze. Con filiali in tutto il mondo. Avevano concepito cose come la “scrittura doppia”, gli assegni, le cambiali, le tratte e le lettere di credito»
Provare a chiedere alla gente del nord quando arrivavano per comprare lana. Quei mercanti? Erano quelli che “divoravano gli uomini e le bestie, i mulini, i castelli, i boschi e le foreste".
Con nessun ducato in tasca, solo un pezzo di carta in mano e una penna dietro l’orecchio”
«Certo, erano avventurieri, ma avevano a Firenze trecento botteghe. La Corporazione dell’Arte della Lana aveva una produzione di oltre centomila pezze. Non si può mettere in dubbio la loro capacità.
Per Firenze erano dei veri benefattori. O sbaglio?».
Non sbagli Johannes, ma stai descrivendo solo una parte di quella Firenze. Certo, la più osannata, la più illustrata, la parte più conosciuta, anche se la gran parte della loro fortuna si basava sulla nostra fatica. Perché vedi, noi eravamo gli invisibili.
Noi operai, intendo.
«Vero, le cronache di quel periodo non parlano molto di voi. Di te quasi nulla.
Caro Ciuto Brandini, oggi hai l’occasione di raccontare com’era la vita dei dieci o forse quindicimila operai addetti alla lana.
Tessitori, pettinatori, scaldassieri, stamaioli, pulitori di sudicio»
Stiamo parlando del 1333, quando ci fu la più catastrofica alluvione dell’Arno. E’ vero, si allagarono magazzini, depositi e cantine di quei ricchi mercanti. Ma per noi operai e le nostre casupole di legno fu una tragedia. Come sempre accade anche con guerre, carestie o epidemie.
«Ho letto. Fu veramente una tragedia.
Una delle tante. Avevate lasciato la campagna ed eravate venuti ad abitare nei sobborghi di Firenze in cerca di un futuro migliore.
Lavoravate dodici ore al giorno per i “lanaioli”, i padroni, in estate anche diciotto»
E la paga? Otto soldi. Non bastavano a vivere, e neppure a morire.
Se arrivavi a prenderli otto soldi. Le multe erano salatissime. Se sbagliavi a lavorare una pezza ti trattenevano cinque soldi. Se terminavi il lavoro senza deporre la lana, due soldi tornavano nelle loro tasche.
«Prima di iniziare il dialogo mi hai raccontato che se un operaio sbagliava spesso veniva non solo licenziato, ma scacciato dalla comunità. Persino da quella religiosa.
Però hai anche accennato ad uno statuto con il quale venivano risolte le controversie».
E’ vero, esisteva uno statuto.
Il primo consiglio?
“Credere al lanaiolo, che poi era il padrone, “contra el lavorante infimo”. Un buon inizio, non credi?
Ti ho anche detto che veniva chiamato uno da fuori, un “Ufficiale Forestiero” per applicare quello statuto.
«Ricordo. Un ufficiale non certo imparziale visto che in pratica era al servizio della polizia privata dell’Arte della Lana. Che poi altro non era che la “Confindustria” dei lanaioli.
Pagato anche bene, e in più gli davano una percentuale per ogni multa.
Imparziale direi di no»
Quello che non ti ho detto è che poteva usare qualsiasi metodo, anche torture, come la gogna o la fustigazione con le cinghie.
Oppure la schopa, la fustigazione con le verghe. Niente slogatura degli arti sul cavalletto, perché quelli ci servivano per lavorare.
«Nelle assemblee popolari c’erano tutti quelli che avevano qualcosa da vendere. Quindi non voi operai. E neppure i nobili. Una strana democrazia.
Vi chiamavano con tono dispregiativo “unghie rosse” o “unghie blu” perché avevate le mani sempre sporche delle tinture delle stoffe»
Ti ricordo che l’Ufficiale Forestiero aveva anche un altro compito, forse il più difficile.
Doveva impedire a noi operai di fare “setta”.
Di riunirci insomma.
Cosa peraltro difficile visto che ogni lavorazione veniva effettuata quasi sempre nella propria casa.
«Essendo il mercante il padrone assoluto di attrezzi, macchinari, case e uomini, aveva sparso per la città le varie lavorazioni per trasformare la lana in stoffa.
Dalla lavatura, alla cardatura, filatura, tintura, tessitura e altre, fino a quindici»
In posti così dispersi era difficile organizzare i lavoratori. Ma dovevamo farlo. Non potevamo continuare a lavorare in quel modo.
Sapevo di quella legge che proibiva ad una sola categoria il diritto di riunione.
Alla nostra, quella degli operai.
Poi arrivarono quegli anni.
«Agli inizi degli anni ’40 il “popolo grasso” perse potere. Inutile raccontare tutta la storia.
La guerra contro Pisa, i crack finanziari, con i nobili a chiedere aiuto al re di Napoli.
Lui mandò un esercito, con a capo quel francese, Duca d’Atene, si faceva chiamare»
Era stato poi cacciato nel 1342, ma nel frattempo qualcosa al a noi operai aveva concesso, anche se continuavamo a prendere otto soldi quando il pane ne costava venti.
Il 23 settembre 1343 quattromila operai scesero nelle piazze al grido di “Muoiano gabelle e popolo grasso”.
«Esasperati dalla fame organizzaste diverse manifestazioni. Ci fu anche una vera battaglia tra tremila operai e le truppe del Comune, ma la situazione per voi operai peggiorò.
Furono emanate nuove leggi per impedire le vostre riunioni e tornò l’Ufficiale Forestiero».
Troppo tardi. Io avevo già organizzato da tempo “la fratellanza”, un vero sindacato. Il resto lo conosci Johannes. L’arresto mio e dei miei figli, e il processo. L’accusa? Tentare di introdurre pericolose novità “in danno dell’avere dei cittadini e del pacifico stato di Firenze”.
«E condannato a morte. La data accennata all’inizio? 25 maggio 1345. Dopo l’arresto di Ciuto Brandini gli operai tessili, per ottenere la sua liberazione, presero la decisione di starsene “iscioperati”, “separati” dai loro padroni.
Scioperarono, per la prima volta».
«Un cronista scrisse in quei giorni che chi gioca col popolo rischia grosso “perché la gente quando è mossa ispesse volte non ristà alle poste di chi la move”.
Quei lavoratori tessili erano anche chiamati “ciompi”.
Vi ricorda qualcosa?
Esatto, ma questa, è un’altra storia»
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Quando i duchi di Windsor gli fecero visita, nel 1937, lui li accolse vestito di un chimono blu, pantofole guarnite di pietre preziose, una cintura con un pugnale d’oro e anelli su tutte le dita delle mani.
Non fu l’unica stravaganza a dire il vero.
Dopo pranzò li invitò a giocare col suo meraviglioso trenino, quello che aveva nell’attico, in una sala lunga venticinque metri.
Non fu tanto il trenino a colpirli, ma l’aereo che sganciava bombe di legno sullo stesso trenino, che lui manovrava comodamente seduto in poltrona.
Era stato nel 1922 che aveva incontrato l'uomo esile.
Gli aveva offerto i propri servigi, e a quell’uomo non era parso vero di avere a fianco uno decorato con la medaglia “Pour le Mérite”, assegnata a chi aveva abbattuto almeno venticinque aerei nemici nella prima guerra mondiale
Quando ebbe inizio?
Esattamente il 6 gennaio del 1929, nevicava e faceva freddo.
Chi lo conosceva lo definiva “un essere insignificante”, ventinove anni, miope, tale da costringerlo a portale lenti molto spesse.
Proveniva alla classica famiglia borghese di Monaco di Baviera.
Lui ci aveva provato a fare carriera in ambito militare, ma non era andato più in là del grado di allievo ufficiale. Essendo lui e la famiglia in difficoltà economiche aveva deciso di donare le sue braccia all’agricoltura.
Voleva diventare agronomo.
Per questo si era iscritto all’università. Mettendosi subito in mostra. Tranquilli, non come studente.
Tutti lo conoscevano perché alle feste universitarie si presentava sempre vestito da sultano turco.
Teneva un diario dove scriveva il nome delle ragazze che lo respingevano.
Da Pelè a Zico, da Ronaldo a Ronaldinho, da Kakà a Neymar. Quando si parla di calcio brasiliano sono questi i nomi più gettonati.
Eppure sono io, nel mondo del calcio brasiliano, il giocatore più conosciuto al mondo.
Il miglior 171 nella storia del calcio.
Non ci credete?
Ho giocato dieci anni tra i dilettanti prima di passare tra i professionisti.
Nel Botafogo, Fluminense, Puebla in Messico, El Paso in Usa, America di Rio, Bangu, Vasco e Ajaccio.
E vi garantisco che ognuna di queste squadre mi pagò regolarmente lo stipendio.
MI chiamo Carlos Henrique Raposo detto il “Kaiser”, perché avevo il fisico di Beckenbauer.
Se giocavo come lui? Insomma, non proprio.
Diciamo che avevo un problema, non so quanto importante per giocare a calcio.
Il pallone.
E’ incredibile come all’interno di ogni storia si intreccino altre storie, altre vite, a volte altre tragedie.
Ricordate?
Siamo partiti dalla storia del calciatore cileno Carlos Caszelye e della partita fantasma disputata a Santiago su ordine di Pinochet.
In quella storia abbiamo accennato agli aerei Hawker Hunter di fabbricazione britannica che l’11 settembre 1973 sganciarono bombe incendiarie sul Palacio de la Moneda dove aveva sede il governo democratico di Salvador Allende.
Dentro quel palazzo non c’era solo Salvador Allende, ma anche la figlia “Tati”.
Da lì abbiamo raccontato la sua odissea, i suoi sforzi, il suo dolore, e il suo suicidio.
Come raccontato, Tati ebbe due figli.
Mayita, Maya Fernandez Allende, ex presidente della Camera dei Deputati
Tempo fa Johannes vi ha raccontato la storia del calciatore cileno Carlos Caszelye e della partita fantasma disputata a Santiago su ordine di Pinochet.
Ricordando con dolore quell'11 settembre 1973 che cambiò la storia del Cile.
(Da leggere qui bit.ly/3FuPfOZ )
Ha solo accennato ai caccia Hawker Hunter di fabbricazione britannica che quel giorno sganciarono bombe incendiarie sul Palacio de la Moneda dove aveva sede il governo democratico di Salvador Allende.
Lui era lì.
Ma non era solo. bit.ly/32kOPfl
Io ero con lui, con il Presidente Allende.
Quando ero entrata nel Palazzo presidenziale quella mattina mai avrei immaginato quello che stava per accadere.
Che ci facevo nel palazzo?
Mi chiamo Beatriz, per amici e famiglia “Tati”.
Figlia del Presidente Allende.