Quella volta andarono su tutte le furie.
I fascisti intendo. E fui io a farli arrabbiare.
Avevano preso un ragazzo di 19 anni, Guido Radi, che stava sabotando le linee telegrafiche.
E lo avevano torturato, per avere i nomi dei compagni. Inutilmente.
Così lo avevano ucciso e dopo averlo trascinato per le strade avevano lasciato il corpo straziato davanti al sagrato del Duomo.
Dissero che nessuno doveva toccarlo.
Fuggirono tutti. Io no.
Trovai un carretto, composi la salma e lo portai al cimitero.
Chi sono? Mi chiamo Norma.
Sono nata alle 19:00 del 1 giugno del 1921, al Podere Zuccantine di Sopra, nel Comune di Monterotondo Marittimo.
Mio padre aveva iniziato a fare il muratore, poi dopo aver sposato mamma aveva aperto con lei una trattoria a Massa Marittima.
"Trattoria Roma" come il nome di mamma.
Da piccola ero molto vivace, una vera monella.
Crescendo ero diventata una brava sarta e insegnavo alle ragazze del borgo “taglio e cucito”.
Oltre a questo aiutavo alla trattoria.
Eravamo una bella famiglia, di sani principi.
Frequentavo la chiesa, e per alcuni mesi, nel 1941, anche l’Istituto Santa Regina di Siena.
Aiutavo bambini abbandonati e le ragazze madri.
Volevo diventare suora, ma mi ammalai.
Andai a casa per curarmi e non tornai più.
Perchè avevo conosciuto Mario, che sposai il 31/03/1942
Lo avevo conosciuto perché lui veniva a mangiare nella trattoria di mamma. Un vero colpo di fulmine.
Dopo l’8 settembre decidemmo di cambiare aria e il 29 dicembre nacque il mio piccolo Alberto Mario.
Fu in quel periodo che conobbi tre donne straordinarie. Antifasciste.
Maria Doni, l’ostetrica del paese, Uliana Marliani e Anita Salvadori.
E conobbi i primi partigiani della 3a Brigata Garibaldi.
Cominciai a stampare volantini sovversivi che nascondevo nella carrozzina di Albero Mario, lasciandoli nelle case dei vicini.
Quando mio marito dovette scappare il mio impegno aumentò. Perché?
Come perché?
Per lui, mio figlio.
Avrei fatto qualsiasi cosa per farlo vivere in un mondo diverso da quello che ci aveva fatto vivere il fascismo.
E feci di tutto.
I fascisti mi odiavano e volevano la mia morte.
La gente, che mi voleva bene, mi disse di scappare, di nascondermi.
“Nascondermi, fuggire? Hanno già costretto mio marito. Io ho il dovere di prendere il suo posto, qui in città, di fare quello che lui avrebbe fatto”
Avevo 23 anni. Voi che avreste fatto?
Non dite che sareste scappate.
Provate il fascismo per anni e poi ne riparliamo.
Sapevo di essere ormai nel mirino dei fascisti.
E il 23 giugno del 1944, con gli alleati alle porte, prima di darsela a gambe, si ricordarono di me.
Tre soldati delle SS e una ventina di fascisti prelevarono me e mia madre dalla trattoria.
Mi strapparono Alberto Mario dal seno.
Mi picchiarono, mi sputarono in faccia e poi misero me e mia madre contro un muro per fucilarci.
Fu una cannonata americana a salvarci.
La mamma fu creduta morta e lasciata lì.
Io venni trascinata via in un podere chiamato Coste Botrelli.
Quello che mi fecero lì lo scrisse il dott. Cheli.
Avevo ecchimosi su tutto il corpo, perché mi avevano picchiato coi calci dei moschetti
Quello che mi uccise fu un proiettile sparato da vicino, dall’alto verso il basso nel petto e una ferita di arma da taglio al cuore.
Scappati i fascisti alcune donne portarono il mio corpo davanti alla trattoria.
Persino le truppe alleate vennero al mio funerale.
Lo so che vi siete dimenticati di me.
Vi siete dimenticati di Norma Parenti, della ragazza che portava i pantaloni.
Che ha lottato senza rassegnarsi ed è morta per costruire un mondo migliore. Per tutti voi.
E per mio figlio Alberto, che sua madre non l’ha mai conosciuta.
Non importa. Però state attenti.
Il fascismo lo abbiamo sconfitto una volta, ma voi siete ben lontani dall’aver sconfitto il male che alimenta le sue radici profonde.
Che comincia sempre dalle piccole cose.
E quando queste accadranno vi chiederete, è lui?
Qualcuno proverà a convincervi che "no, non è lui, tranquilli, sono solo piccole cose".
Non credetegli. Reagite, anche alle piccole cose.
Perché se non lo farete, un giorno vi accorgerete di averlo ormai dentro quel male.
E tutto intorno.
Questa è una delle tante storie contenute in “Non esistono piccole donne”, prefazione di Gabriella Greison @GREISON_ANATOMY

“Storie di DONNE che hanno contribuito in qualche modo a rendere migliore il mondo”.

@peoplepubit
Un’emozione scrivere queste storie.
Un’emozione avere così tanti lettori.
Un’emozione sentir rivivere le storie di queste donne a teatro.
Grazie a Marcello Cerri.
E alla Compagnia teatrale amatoriale “La Società di Mutuo Soccorso”.

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Apr 29
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio. Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile. Non era possibile.
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Apr 28
«So che due giorni prima aveva letto a suo marito un racconto di Jack London.
Credo fosse la lotta disperata del protagonista contro un lupo in un deserto di ghiaccio.
Forse aveva qualche riferimento con lui, ormai in fin di vita». ImageImage
Erano le sei di sera e quell’ultimo attacco gli fu fatale. Circa un’ora dopo se n’era andato. Per sempre.
Ricordo che gli stavo accarezzando la mano quando esalò l’ultimo respiro.
I medici e le infermiere, in un angolo della stanza, iniziarono a piangere.
«Era il 21 gennaio 1924.
So che la vita di suo marito, negli ultimi due anni, era stata segnata molto duramente.
Esattamente dal 26 maggio 1922, quando venne colpito da un primo un attacco apoplettico.
E poi un secondo nel dicembre dello stesso anno»
Read 25 tweets
Apr 26
Lungo un viale della città di Częstochowa si può incontrare una panchina.
Non la solita panchina, ma una panchina speciale, con una scultura in bronzo.
Un figura femminile seduta, con ai suoi piedi un gatto. La targa dice che è dedicata a Halina Poświatowska. Image
Che poi sarei io.
Avrei dovuto immaginare che la mia vita non sarebbe stata per niente facile. Fin dall’inizio.
Ero appena nata e già erano cominciati i problemi.
I miei genitori volevano chiamarmi Halina, ma il parroco, nel certificato di nascita, scrisse Helena.
Il motivo? Secondo lui Halina non era presente nell’albo dei santi quindi aveva proposto ai miei genitori uno simile, Helena.
E quello scrisse nel certificato.
Una volta a casa i miei genitori continuarono a chiamarmi Halina.
A loro piaceva quello. E pure a me.
Read 19 tweets
Apr 25
Mi chiamo Gina, nome di battaglia “Lia”.
E voi avete un problema. Comincia sempre così.
Prima qualche fiocco di neve. Che diventa una palla di neve. Che piano piano diventa valanga.
E mentre pensate «vediamo come va a finire» la valanga comincia a rotolare a valle.E siete fottuti
Come riconoscere i primi fiocchi?
Per esempio, quando si imbratta con svastiche un murale, e voi a dire «che volete che sia, è stata solo una bravata».
Già. Peccato che quel murale fosse dedicato a me. Questo è successo nel 2014.
E poi via, di fiocco in fiocco, nel 2018 hanno pensato bene di spaccare la targa che mi hanno dedicato a Milano in zona Niguarda nel giardino di via Hermada. Cosa ho fatto per meritarmi un murale e una targa? Mettetevi comodi.
Vi racconto la mia storia.
Read 17 tweets
Apr 24
Ieri la mia amica Mary Leigh mi ha chiesto: “Ho saputo che vai a vedere il Derby di Epsom. Come mai?”
Le avevo risposto: “Lo capirai domani sera leggendo i giornali”.
Già, il Derby di Epsom, la corsa di cavalli più prestigiosa del Regno Unito.
E così sono qua, al Derby d’Epsom, l'appuntamento mondano con tutta l’alta società britannica. Compresa la famiglia reale.
E’ il 4 giugno del 1913.
Perché sono venuta?

Una storia lunga. Iniziata anni fa.
Mi chiamo Emily Wilding Davison e sono nata a Londra l’11 ottobre 1872 in una famiglia numerosa.
Studiavo al Royal Holloway College di Londra.
Ero bravissima.
Ma fui costretta a lasciare la scuola perché mia madre, rimasta vedova, non poteva pagarmi la retta.
Read 18 tweets
Apr 23
Come fecero i nazisti ad arrivare così velocemente fino a pochi chilometri da Mosca con l’Operazione Barbarossa?
La sorpresa? Certo. La Germania nazista e l’URSS avevano sottoscritto un trattato di non aggressione.
La rapidità? Anche. Un violento attacco su tre direttrici.
Un vero rullo compressore.
Ma se i tedeschi in poco tempo avevano presero Kiev, assediato Leningrado, arrivando alle porte di Mosca, uno dei motivi fu anche sicuramente per un fatto accaduto qualche anno prima.
Esattamente il 12 giugno 1937.
Quale fatto?
La mia morte.
Quando i cittadini di Mosca vennero a sapere che ero morto la loro reazione fu di stupore prima, e di sconcerto poi.
Quando vennero a sapere che ero stato condannato a morte da un tribunale speciale, intendo.
L’accusa?
Aver tradito i popoli dell’URSS e l’Armata Rossa.
Non solo.
Read 25 tweets

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