La famiglia Nulli, la mia, si ritrovò dopo la Liberazione.
Un incontro meraviglioso.
C’erano tutti, anche mia sorella Agape Nulli Quilleri, staffetta partigiana della Brigata “Tito Speri” delle Fiamme Verdi bresciane.
Tutti vivi. O meglio, quasi tutti.
Tutti tranne me.
Perché non sono tornato alla fine della guerra per abbracciare la mia famiglia?
No, non sono caduto in battaglia.
Quello che mi è successo è parte di un episodio purtroppo dimenticato, avvenuto nel marzo del 1942.
Dimenticavo.
Mi chiamo Giuseppe Nulli.
A quel tempo facevo parte del Battaglione Gemona, della più importante e gloriosa divisione da montagna del Regio Esercito Italiano: la Julia.
Ci avevano spedito in Grecia.
Perché dovevamo spezzarle le reni, ci avevano detto.
Difficile riuscire a farlo a dorso di mulo.
In quei giorni dovevamo lasciare la Grecia e rientrare in Italia per essere inviati sul fronte russo.
Ci imbarcammo alle 7 del mattino del 27 marzo 1942.
La nave che ci doveva trasportare in Italia era ormeggiata nella rada di Lutraki, nel Canale di Corinto.
La nave era il piroscafo Galilea, una nave passeggeri della Adriatica Società di Navigazione.
Era stata varata col nome di Pilsa, vantava 8.040 tonnellate e due eliche che ci avrebbero spinto a una velocità di 13 nodi e mezzo via Lutraki, fino a Corinto, poi verso verso Bari.
Non eravamo soli.
Il convoglio comprendeva il Crispi e la Viminale, i piroscafi Piemonte, Ardenza e Italia; il cacciatorpediniere Sebenico, con le torpediniere San Martino, Castelfidardo, Mosto e Bassini di scorta.
A proteggerci gli aereo siluranti della Regia Aeronautica
Ma solo di giorno.
Eravamo alpini, non troppo pratici di imbarchi.
Ognuno di noi aveva ricevuto un salvagente e le relative istruzioni.
Tra cui quella di tenere le scarpe slacciate, d’impaccio durante un affondamento.
L’ultimo a salire fu il comandante Carlo D’Alessandro
Alla fine eravamo in totale 1329 imbarcati sul Galilea.
969 gli alpini.
689, tra cui il sottoscritto, appartenenti al Battaglione Gemona.
C’erano anche 70 detenuti politici greci (64 uomini e 6 donne).
Sapevamo dei rischi.
E sapevamo che erano parecchi
Eravamo in 1329, ma c’erano scialuppe solo per 520, tanto per cominciare.
Oltretutto la Regia Marina era in una crisi profonda a causa della mancanza di unità di scorta, oltre a avere armi antisommergibile limitate.
Ma quello, non era nemmeno il lato peggiore.
Tutti sapevano che spostare truppe in quel mare era praticamente un suicidio.
Quello era un lembo di mare infestato da sommergibili, con Malta ancora in mano a Sua Maestà, e Gibilterra pronta ad aprire le colonne d’Ercole a quei predatori.
Noi alpini eravamo ammassati tra i saloni della prima e della seconda classe, sparsi sui i vari ponti, a bere grappa, a fumare sigarette e a giocare carte.
Ognuno raccontava della propria famiglia, con un pensiero a chi aveva trovato la morte in Grecia.
C’era un singolo predatore oltre il canale d’Otranto.
Il sommergibile inglese HMS Proteus comandato da Phillip Steward Francis.
In avvicinamento silenzioso. Quota siluri.
Alle 23:45 la Galilea fu colpita da un siluro sulla sinistra che causò uno squarcio di circa 6 metri per 6
La nave cominciò a sbandare inclinandosi di 15 gradi. Il comandante cercò di portare la nave verso alcune isole. Inutilmente.
L’agonia della nave continuò fino alle 3,50 del 29 marzo, quando affondò.
Era il 29 marzo, ma la data ufficiale della tragedia è rimasta il 28 marzo 1942.
Eravamo alpini, provenivamo da zone montuose, la maggior parte di noi non sapeva nemmeno nuotare e dopo che il siluro colpì la "Galilea" fummo presi dal panico.
Le acque fredde e la presenza del sommergibile nemico impedirono le operazioni di salvataggio.
Dei 1329 uomini imbarcati sulla Galilea le vittime furono 1050, mentre i superstiti 279.
Tra gli alpini imbarcati i superstiti furono 141.
Il battaglione Gemona praticamente distrutto.
Dei 689 uomini del Gemona, morirono in 651.
Tra cui il sottoscritto, Giuseppe Nulli.
La cosa più triste fu che la maggior parte delle vittime non venne mai ritrovata, dispersa in mare.
Alcuni corpi vennero portati dalla risacca sulle coste della Grecia (Prevesa e Corfù), dell’Albania (Saseno) e persino della Puglia
La notizia del disastro, telegrafata solo il giorno dopo, spezzò il cuore al Friuli: il Gemona non esisteva più.
MAI DAUR GEMONA! (MAI DAUR, Mai indietro, motto del 1915)
Questa è la storia della tragedia "alpina" del Galilea.
Giuseppe Nulli era nato a Iseo l’8 settembre del 1919.
Studente universitario e musicista, era partito con gli alpini del Battaglione Gemona.
Volontario.
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Giorni fa Johannes ha raccontato con due thread la nascita dei fasci siciliani dei lavoratori, sul perché di quei moti e sul modo con cui vennero repressi. (leggete da qui bit.ly/39u6LIb )
Ha concluso con un ultimo tweet che potete leggere sotto.
Mi chiamo Napoleone Colajanni, deputato del Regno d'Italia e oggi, 20 dicembre 1892, sto per denunciare alla Camera uno scandalo bancario senza precedenti. E’ incredibile.
Sono bastati solo una trentina d’anni al nuovo Stato Unitario per affondare nella corruzione.
In attesa facciamo un passo indietro.
All’inizio del 1871 quando Roma è diventata capitale e subito dopo sovrano e governo vi si sono insediati.
Da quel momento Roma ha avuto uno straordinario sviluppo edilizio.
Soprattutto per l’attività amministrativa del Governo.
Siamo prossimi alla partenza del TT, il Tourist Trophy. Nessun straniero ha mai vinto, solo vittorie di motociclisti del Regno Unito, anche se la Guzzi, la mia moto, questa corsa l’ha già vinta due anni fa, nel 1935.
In due categorie.
Ma non con un pilota italiano.
A vincere nella 250 e nella classe 500 su Guzzi era stato il pilota irlandese Stanley Woods.
Correvo anch’io sulla stessa moto quell’anno, il 1935, ed ero anche favorito dopo aver stabilito nelle prove un incredibile 30’10” sul giro.
Un vero record.
Ero per gli inglesi “The Black Devil” per il colore della mia tuta e per gli americani il “corridore atomico”.
Ci tenevo a vincere.
Invece con la mia Guzzi 250 era finito in un banco di nebbia, con un corvo in mezzo alla strada e relativa caduta.
Con due vertebre rotte.
Nel thread di ieri (leggete qui bit.ly/39u6LIb) ho raccontato la nascita dei «fasci siciliani» come protesta per le loro condizioni di lavoro.
E le loro richieste.
Vi avevo lasciati con i proprietari riuniti a chiedere a gran voce di abolire l’istruzione obbligatoria.
Non era un’idea neppure tanto nuova se da secoli tenere i popoli nell’ignoranza è una "conditio sine qua non" per poterli ingannare.
Come presero la cosa in Parlamento?
A dire il vero la maggioranza di idee chiare ne aveva ben poche.
Anche perché ascoltava solo i proprietari.
Che continuavano a ripetere che la situazione economica dell’isola era buona, che il sistema fiscale era perfetto, per niente discriminatorio.
Insomma, la Sicilia per loro non aveva bisogno di nessuna riforma.
Di una cosa sola c’era necessità.
Di una veloce e feroce repressione.
In quell’11 luglio 1894, in una Camera semideserta, l’approvazione dell’articolo 3 della nuova legge di pubblica sicurezza era fondamentale per il governo presieduto dal siciliano Francesco Crispi.
La maggioranza fu schiacciante.
204 i voti a favore.
Solo 40 i contrari.
Cavallotti, deputato dell’opposizione, si mise ad urlare: «Non è democrazia la nostra, ma dittatura!»
Una legge di una gravità inaudita.
Autorizzava una reclusione di tre anni per chiunque avesse dimostrato «l’intenzione di voler commettere atti contro il sistema sociale».
Grazie a quella assurda legge Crispi poteva in quel 1894 procedere.
Poteva, tra tumulti, repressione e processi dei tribunali militari, ristabilire l’ordine.
Quale ordine?
L’ordine di quella che è passata alla storia come la «Rivolta dei fasci siciliani dei lavoratori».
Eliza Clayton, la mia governante, mi trovò compostamente disteso sul letto, martedì 8 giugno del 1954 a Cambridge.
Morto.
Certo, come inizio di una storia non è il massimo, lo so.
Ma è la mia storia.
E tanto valeva iniziare dalla fine.
Il coroner disse che era un suicidio "attuato in un momento di squilibrio mentale".
Il genio.
Chissà come avrà fatto a capire che era un suicidio. Forse dalla schiuma attorno alla mia bocca?
Dal recipiente contenente cianuro di potassio?
Dalla mela morsicata sul comodino?
Comunque.
Suicidio "attuato in un momento di squilibrio mentale", scrisse. Può essere.
Gli ultimi due anni erano stati per me un inferno, cominciato durante l’interrogatorio per un furto subito in casa.
Fu lì che dissi alla polizia di essere omosessuale.
Apriti cielo.
Anno 1990 - Lui si chiama Pietro Ivano Nava, nome sconosciuto ai più.
Nato nel milanese vive ora a Monte Marenzo.
Ha 40 anni e lavora come agente di commercio, rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate 'Dierre' di Villanova d'Asti.
21/09/1990 - E’ venerdì, e fa caldo.
Pietro si trova in Sicilia per lavoro, destinazione Agrigento.
Assorto alla guida della sua Lancia Thema, sulla statale 640, si accorge solo all’ultimo della Ford Fiesta rosso amaranto ai lati della strada.
La portiera è aperta sulla destra
Accanto c’è un ragazzotto col volto coperto da un casco.
Più avanti un altro sta scavalcando il guardrail.
Ha il volto scoperto, e ha una pistola.
Sta inseguendo qualcuno che cerca di mettersi in salvo nel vallone bruciato dal sole.
Inseguito lungo la scarpata, l’uomo inciampa.