Presso l’Archivio centrale di Stato, a Roma, ci sono cose interessanti.
Una di queste è la contabilità del Comitato centrale dei fasci.
Dentro c’è tutto. O meglio, quasi tutto.
Parlo dei finanziamenti al fascismo da parte di agrari, imprenditori, società commerciali e banche.
Non solo l’elenco dei finanziatori, ma anche i bilanci. Si può scoprire che tra ottobre del 1921 e lo stesso mese del 1922, entrò nelle casse del fascismo la somma di 2.789.000 lire.
La somma è certo parziale, mancando tutte le voci delle amministrazioni periferiche.
Comunque.
Il 61% di quella somma proveniva da società industriali e commerciali, il 33% dai privati (in buona parte agrari) e il 6% da istituti di credito e assicurazioni.
Il totale dei finanziatori circa 1.800.
Valore medio dei versamenti circa 1.500 lire.
Solo 9 superano le 10.000 lire.
Avete ragione, non una grande cifra.
Però dovete tener presente che stiamo parlando di una somma parziale e, cosa più importante, la politica non costava come oggi.
Nessuna spesa lussuosa.
La propaganda sicuramente meno costosa rispetto ad oggi.
Quei finanziamenti, soprattutto quelli del nord, aiutarono sicuramente Mussolini.
Felice Guarneri, esponente di spicco della Confindustria dell’epoca fascista, nel suo libro di memorie scrive: «La borghesia terriera e industriale della Valle Padana fu larga di aiuti al fascismo».
Però è giusto raccontarla tutta la storia.
Ebbene, nel periodo1920-1922, gli ambienti economici italiani finanziarono sì il fascismo, ma anche le organizzazioni non fasciste (che non si sa mai come va a finire).
Ma c’è una cosa che salta all’occhio.
Non per giustificarli, certo.
Iniziarono a finanziare il fascismo quando videro che anche gli ambienti politici democratico-liberali avevano deciso di appoggiare Mussolini.
Tante le persone importanti che presero, come diranno in seguito, un abbaglio.
Come il senatore liberale Luigi Albertini, per esempio.
Il Corriere della Sera da lui diretto (era diventato direttore a soli 29 anni) passò dalle 100.000 copie del 1900 alle 800.000 del 1925, quando fu costretto a lasciarlo per le violente pressioni di Mussolini e del regime.
Per comprendere la grandezza dell'uomo, è stato il direttore che ha creato il supplemento “La Domenica del Corriere” e “La Lettura”, pubblicata ancora oggi. Come detto fu costretto a lasciare il Corriere della Sera per la sua opposizione al fascismo.
Eppure.
Il 19 novembre del 1920 sul Corriere della Sera da lui diretto, definì “santa” la reazione antisocialista in corso.
Ma non fu il solo.
Ricordate Giovanni Amendola, grande antifascista, morto nel 1926 in conseguenza di aggressioni squadristiche?
Dopo che Albertini definì “santa” la reazione antisocialista, Amendola gli scrisse una lettera per confermargli di aderire col pensiero “alla riscossa antisocialista” con la speranza “di creare una situazione politica che consentisse la restaurazione dell’ordine”.
Due grandi uomini, che pagarono cara la loro opposizione al fascismo, ma che inizialmente “presero un abbaglio”.
Ma come è stato possibile?
Perché non si accorsero che si stava scivolando verso una dittatura?
E non furono i soli.
Salvemini e Croce con loro, per esempio.
E molti altri.
Lo stesso abbaglio che prese Luigi Einaudi, che in quei primi anni “lo spinsero a guardare con un interesse sempre maggiore al fascismo e a vederci un movimento in grado di applicare i principi liberali nei quali si riconosceva”.
So che vi state ponendo una domanda.
«Perché gli industriali finanziarono il fascismo e perché molta gente perbene prese quel maledetto abbaglio?»
Nella risposta troverete anche quanto sia pericoloso ignorare “i mali ancora piccoli”.
Che tanto piccoli allora non erano.
Ricordate che stiamo parlando del periodo 1920-1922. La risposta è che quella gente appoggiò il fascismo in quegli anni senza sapere cosa il fascismo sarebbe diventato.
Oggi si dice "fascismo" e subito si pensa alla soppressione delle libertà democratiche.
Si dice "fascismo" e subito il pensiero va all’alleanza coi Hitler e alla tragedia della Seconda Guerra mondiale.
Ma quella gente nel periodo 1920-1922 ignorava tutte queste cose.
Erano convinti che il fascismo, facilmente controllabile, sarebbe durato poco.
Ed essendo controllabile, con la possibilità di usarlo per indebolire il movimento socialista.
Questa era anche l’idea della Confindustria.
Utilizzare i fascisti, ma senza dar loro il potere, sicuri che prima o poi il fascismo si sarebbe spostato su posizioni più moderate.
Cosa che non avvenne.
Ma infatti nel 1922 anche gli industriali iniziarono ad essere diffidenti verso Mussolini.
E’ dimostrato proprio analizzando i finanziamenti.
In grande nel dicembre 1920, dopo le occupazioni delle fabbriche, in calo già dall’anno successivo.
Quando il movimento socialista era indebolito.
Si trova un riscontro nel settembre 1921, quando Giovanni Marinelli, segretario amministrativo dei fasci, si lamentò che i finanziamenti avevano subito un pauroso rallentamento.
Detto tutto ciò, una considerazione.
Presero un abbaglio, è vero, ma almeno i segnali?
Perché i fascisti si erano già visti all’opera.
E non parlo tanto dell’assalto all’Avanti del 15 aprile 1919, dove Mussolini fu solo spettatore interessato e compiaciuto.
Giusto ricordare che non furono solo i fascisti a cantare vittoria in quell’occasione, ma la cantarono anche gli esponenti della ricchezza lombarda, che “si sentivano rinascere nel vedere per la prima volta i rossi costretti ad abbassare la testa e ad ammettere la sconfitta”.
I segnali c’erano tutti.
Agli imprenditori che rifiutavano ogni trattativa per il rinnovo dei contratti di lavoro, gli operai avevano risposto occupando le fabbriche.
Come ulteriore risposta i fascisti usarono lo squadrismo.
726 assalti nei soli primi 3 mesi del 1921.
Il fascista Francesco Giunta ricordava con piacere le “sante legnate” che distribuiva a Trieste a slavi e rossi. Lui il responsabile dell’assalto armato del 27 agosto del 1920 ai cantieri di Monfalcone.
Segnali che andrebbero raccontati tutti.
Segnali che lo squadrismo fascista rese sempre più chiari ed evidenti.
Come l’eccidio di Palazzo d’Accursio a Bologna, il 21 novembre 1920, durante la Cerimonia per l'insediamento della giunta socialista vincitrice delle elezioni.
Ci furono 11 morti e 58 feriti.
Segnali.
Milano, 23 marzo 1919.
«Ciao Carlo, hai visto? C’è movimento in piazza San Sepolcro».
“Sì Mario, si fanno chiamare fasci di combattimento.
A occhio saranno circa 400”.
«Andiamo al bar a bere qualcosa dai, quelli sono quattro gatti. Fasci di combattimento, da morir dal ridere».
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I bombardamenti sulle città italiane iniziarono l’11 giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna.
Negli anni successivi quasi tutte le città italiane vennero bombardate.
Città importanti del nord, come Genova, Milano e Torino.
E del sud, come Messina e Napoli.
Il primo su Palermo avvenne il 23 giugno 1940.
Le bombe però mancarono l’obiettivo, che era il porto, finendo sulla città.
A rimetterci la vita furono 25 civili. 125 i feriti.
I primi obiettivi furono principalmente militari e industriali.
Non mancarono, come a Palermo, i “danni collaterali”. L’11 giugno 1940 a Torino per esempio.
Obiettivo la Fiat Mirafiori, ma alcune bombe caddero in città.
17 i morti.
Ma questa sera non voglio raccontare la storia dei bombardamenti che sono avvenuti sulle città italiane.
Certo, era un’operazione rischiosa, anzi rischiosissima, ma la prospettiva di concludere la guerra entro il Natale del 1944 era troppo allettante.
Il Generale Dwight Eisenhower aveva insistito e il Generale Montgomery aveva predisposto il tutto, anche se con troppa fretta.
Il piano di Montgomery era certamente ambizioso. Muovere truppe e mezzi corazzati attraverso l’Olanda e di qui fare un balzo al di là del Reno e penetrare in Germania.
Quell’operazione doveva essere il colpo di grazia che avrebbe fatto crollare il già vacillante Terzo Reich.
Dopo lo sbarco in Normandia i tedeschi si erano ritirati senza sosta, velocemente, e questo aveva permesso agli alleati di consolidare le proprie teste di ponte nella Francia nord.
Quell’idea avrebbe potuto funzionare.
In fondo, bisognava prendere solo quei cinque ponti in Olanda
Fu un gesto romantico, almeno dal mio punto di vista, forse l’unico della sua vita.
Dopo la fulminea vittoria sulla Francia prese la decisione di riportarmi, dalla Cripta dei Cappuccini di Vienna dove mi trovavo, a Parigi nel Tempio degli Invalidi accanto alla tomba di mio padre.
Ero a Vienna da oltre un secolo, quella “restituzione” era forse un atto di giustizia postuma?
Non credo.
Hitler aveva in mente una cosa sola, attirare la simpatia dei francesi che tanto avevano a cuore la memoria dell’Imperatore mio padre.
E così il 15 dicembre 1940, mentre i miei resti venivano trasferiti agli Invalides in una tomba recante l'iscrizione Napoléon II Roi de Rome (Napoleone II Re di Roma), le truppe naziste scomparvero dalle pagine dei giornali, sostituite da una strana processione funebre.
La notizia venne pubblicata sulla Gazzetta Piemontese il 31 maggio del 1867.
Titolo del trafiletto: “Disgrazia”.
Si annunciava la morte di Francesco Verasis Asinari, conte di Castigliole d'Asti e conte di Castiglione Tinella.
Una morte “…venuta turbare la gioia delle feste”.
“Disgrazia” la morte, ma non è che la vita del Conte fosse stata tutta rose e fiori.
Anzi.
Fin dalla nascita.
Quando poco dopo rimase orfano di padre.
Certo, il tutore non era niente male, essendo Camillo Benso di Cavour.
Come so tutte queste cose?
Esatto. Sono proprio io.
Vittorio Emanuele II quando giravo a corte mi chiamava “Castiùn”.
Fare una splendida carriera non mi fu difficile, complice l’ingente patrimonio che avevo ereditato. Francesca Trotti di Santa Giulietta fu la donna che sposai durante la Prima Guerra d’Indipendenza.
Marzo 1958.
Che ci faccio chiuso in cella nel carcere Le Nuove di Torino?
Mi chiamo Aldo Cugini, discendente di una famiglia di imprenditori bergamaschi.
E’ successo tutto sabato 1° marzo quando sono stato prelevato dalla polizia nella mia casa in Via Foro Boario 11 a Bergamo.
Continuano a ripetermi di stare calmo, di non agitarmi, ma vorrei vedere loro al mio posto.
Devo sposarmi tra un mese, ho un sacco di cose da preparare, tra cui tutti i documenti e poi ci sono gli ultimi acquisti da fare.
Parlano di un omicidio.
Cosa c’entro io con un omicidio?
Ieri, lunedì 17 marzo, sono venuti a trovarmi.
Mio fratello, le mie due sorelle e la mia fidanzata, ma hanno autorizzato solo mio fratello per un incontro. Che ho fatto di male per essere trattato così?
E’ tutto un equivoco, un errore, io non ho ucciso quell’uomo.
Se sono arrabbiato? Se sono arrabbiato?
No, tranquilli, non sono arrabbiato, SONO INFURIATO!!!
Ma cosa vi è venuto in mente di dare a quella storia quell’assurdo significato?
La mia storia voleva renderlo uno spauracchio, da cui stare lontani.
Altro che incentivo.
Me l’aveva raccontata, simile alla mia, un mio arciere, Pellegrino si chiamava, mentre a cavallo percorrevamo insieme la strada che da Gradisca porta a Udine. Forse per distrarmi, forse per convincermi che in fondo se ne poteva fare a meno, perché nascono solo guai e disastri.
Nel 1524 vivevo, seppur nobile conte, una vita da invalido, dopo aver servito nell’esercito della Repubblica Veneta.
Ero riuscito a raggiungere il grado di capitano dei cavalleggeri, ma le troppe ferite mi avevano costretto a ritirarmi nella mia villa di Montorso.