Anno 1985 - Antonino di anni ne ha 38.
Da qualche anno è alla squadra mobile di Palermo a dirigere una squadra investigativa, la Catturandi.
Ne fanno parte solo volontari, uomini che non hanno paura di sfidare la mafia.
A Palermo ormai è una mattanza continua.
Bombe, mitra, pistole, un vero arsenale da guerra per lo scontro tra clan mafiosi che insanguina la città.
Dal 1979 al 1986, un bilancio terribile.
Alla fine del 1986 saranno oltre mille i morti, 500 vittime per strada, altre 500 rapite e scomparse.
Antonino, ottimo investigatore, sa di essere a rischio.
Sono stati uccisi dalla mafia poliziotti come Boris Giuliano e giudici come Costa, Terranova, Chinnici.
Il Presidente della regione Piersanti Mattarella, Pio la Torre, il prefetto Carlo Albero dalla Chiesa.
A capo della Catturandi Antonino aveva messo un amico, Beppe Montana.
Uno degli sbirri “pazzi”, trentenni amanti della giustizia.
E Il 28 luglio scorso Beppe è stato ammazzato al porto di Santa Flavia, dopo una breve gita domenicale in barca.
Grazie anche al "rapporto dei 162” da lui stilato, Falcone e Borsellino avevano potuto istruire il primo maxi processo alla mafia
Durante il processo per l’omicidio del giudice Chinnici rivela che il magistrato stava per spiccare un mandato di arresto per Ignazio e Antonino Salvo
Antonino sa di aver detto una cosa vera, dice che le prove ci sono, ma si ritrova non solo solo, ma messo sotto accusa.
E a Palermo, rimanere soli, per un giudice, un poliziotto o un uomo di Stato, significa solo una cosa: essere condannato a morte.
"Morti che camminano".
Da quel momento Antonino vive con un'angoscia tale, da insegnare alla sua bambina di due anni di rispondere sempre solo con il nome.
E lei ha imparato. "Sono "Elvira, Elvira e basta" ripete a tutti.
E lo stesso fanno gli altri figli Gaspare (11 anni) e Marida (9 anni)
E' l'angoscia non solo di Antonino, ma l'angoscia e la paura che sta segnando la vita di tutti i poliziotti a Palermo.
E delle loro famiglie.
Antonino ha fatto un patto con la moglie Laura.
E lei è diventata la sua sentinella.
Quando torna a casa, in Via Croce Rossa, il suo Ninni le telefona sempre.
E lei si mette a controllare la zona, dall’alto di quel residence con quei grattacieli divisi tra alberi e aiuole.
A Palermo la paura è parte integrante della vita di molte persone.
Basta un nonnulla per mandarla nel panico.
Una notte si era trovata in casa con la piccola Elvira e a mezzanotte era andata via la luce.
Tutta la zona al buio. Si era spaventata a morte.
E aveva telefonato al marito di non tornare a casa.
6 agosto 1985 – Antonino ormai torna poco a casa. Laura ci soffre, non vede il marito da 6 giorni, ma alle 14.30 riceve una telefonata inaspettata.
Dopo aver avvertito qualcuno in ufficio che sarebbe andato a casa, Antonino ha telefonato alla moglie: “sto arrivando Cicci"
Ore 16.00. L’Alfetta bianca è arrivata.
A bordo, oltre ad Antonino Cassarà, ci sono due agenti, Roberto Antiochia e al volante Natale Mondo.
E’ proprio Roberto ad aprire la portiera ad Antonino.
Mentre si dirigono dentro il palazzo scoppia l’inferno.
Un gruppo di nove uomini armati di Kalashnikov, appostati sulle finestre e sui piani dell'edificio in costruzione di fronte alla sua palazzina, al civico 77, hanno aperto il fuoco.
Alla fine saranno oltre duecento i colpi.
Antonino è raggiunto da un solo colpo fatate che gli spezza l’aorta mentre entra correndo nell’androne di casa.
La moglie Laura ha visto tutto.
Corre giù per le scale con Elvira in braccio bussando a tutte le porte per poterla lasciare a uno degli inquilini.
Nessuno le apre.
Scende giù giù fino in fondo alle scale dove Antonino si è trascinato morente.
Si siede sugli scalini piangendo.
Lo abbraccia.
Rimane sola, con l’amore della sua vita e non si dà pace.
Era nella logica di Cosa Nostra ammazzare gli sbirri bravi e Antonino Cassarà, commissario di Palermo, era uno di questi.
Lui lo sapeva.
E lo sapeva l'amore della sua vita, che dopo l'amico Montana sarebbe toccato a lui
Antonino non fu la sola vittima di quell'agguato.
L’agente Roberto Antiochia aveva 23 anni.
Aveva deciso volontariamente di fare da scorta al suo "capo".
Anche oggi. Anche se era in ferie.
Aveva provato a fare da scudo con il suo corpo a ad Antonino Cassarà.
Crivellato di colpi si era trascinato per poco, prima di morire.
Roberto faceva parte anche lui della squadra Catturandi di Cassarà.
Quella che sfidava la mafia ogni giorno.
Con lui molti giovani poliziotti, uomini che amavano, sognavano, soffrivano e credevano nei valori di un Paese migliore.
Uniti come fratelli.
L’altro agente, Natale Mondo, autista e braccio destro di Cassarà, si salvò miracolosamente.
Oggi non vi parlerò di lui.
Lo farò magari domani.
Perché la sua è veramente una storia allucinante, difficile persino da raccontare.
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Piero Calamandrei.
INTERVENTO ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE
4 marzo 1947, seduta pomeridiana.
Intervento sulla disposizione transitoria XII
“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”
“C'è nelle disposizioni transitorie, del progetto, un articolo che proibisce «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista».
Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome «fascismo»,
ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia.
Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie,
Grazie a te Johannes ho potuto ascoltare Joan Baez cantare quella canzone al Festival di Woodstock, nel 1969.
Un testo scritto nel 1925 dal giovane poeta americano Alfred Hayes.
Qualche anno dopo, Earl Robinson, adattò quel testo a una musica composta da lui.
“Stanotte ho sognato che ho visto Joe Hill /
Vivo come te e come me /
Dico: «Ma Joe, tu sei morto da dieci anni» /
«Non sono mai morto» fa lui /
«Non sono mai morto» fa lui ”.
In questo modo smise di essere una poesia per diventare una stupenda poesia in musica.
Per questo Joan Baez ama cantare questa canzone.
Molti ignorano che Joe Hill non è una persona inventata, non è il prodotto di una fantasia, ma un uomo in carne e ossa, realmente vissuto.
Come lo so?
Lo so perché sono io.
Come dite?
So la fatica che hai fatto, Johannes.
Poche informazioni, niente biografia, niente ritratto, la mia figura dimenticata, scomparsa nel nulla.
E quella data poi.
La mente va sempre alla rivoluzione industriale, o alle prime leghe emiliane.
Ma tutto ebbe inizio molto tempo prima.
«Lo so.
Qualche secolo prima.
Torniamo al 1333, un anno importante per Firenze.
Con i suoi centomila abitanti festeggiava il compimento di un’opera straordinaria come la cerchia muraria.
Mancava ancora il campanile al nuovo duomo, ma la sua costruzione stava per iniziare».
Dante era morto e Giotto era su con gli anni, ma non erano gli artisti i protagonisti della vita pubblica di Firenze.
Erano altri.
Il loro motto?
“In nome di Dio e di guadagno”.
Li chiamavano “gli uomini dai piedi polverosi”, perché erano sempre in giro per il mondo: i mercanti.
Mi avevano chiesto di salire sul palco con lui quel 28 agosto 1963.
Mi rifiutai e mi accomodai in prima fila.
Da un anno preparavano quell’evento e in fondo io non avevo fatto nulla.
“I have a dream” il discorso.
Sul palco lui, Martin Luther King.
Fu un colpo durissimo quando venni a sapere della sua morte.
Mi ritrovai a commemorarlo davanti a centinaia di giovani.
Dissi loro: “Qualcuno ha detto che tra 40 anni questo Paese potrebbe avere un Presidente nero. Credo che con questo clima, di anni ce ne vorranno 400”.
Negli anni della lotta per i diritti civili di noi afroamericani mi sono sempre impegnato ed esposto in prima persona.
D’altronde ero nato in Louisiana nel 1934.
Non certo il posto ideale per un nero.
I rapporti con i bianchi scarsi.
Quasi sempre traumatici.
Oggi il Torneo al Queen’s Club è riservato ai soli uomini, ma non era così ai miei tempi.
Era comunque considerato, come oggi, la migliore anticamera prima della partecipazione a Wimbledon, il mio obiettivo.
E la mia spalla non va ad infiammarsi giocando proprio quel torneo?
Una sfortuna sfacciata.
Ero arrivata da poco proprio per fare il grande salto. Negli USA, la mia patria, avevo vinto molto, per quello avevo deciso di sbarcare in Europa.
E avevo iniziato vincendo i Tornei di Surbiton e Manchester come preparazione a Wimbledon.
Mi presento.
Mi chiamo Maureen Connolly e sono nata il 17 settembre 1934 a San Diego, in California.
Papà voleva un maschio, e per molti anni ho sempre creduto che fosse mia la colpa.
Del suo abbandono, dopo avermi promesso che sarebbe andato a comprarmi un gelato perché avevo la febbre.
Mi chiamo Luigi Corsi, maggiore commendatore, specializzato in opere di artiglieria per la Regia Marina Borbonica.
Vedo che non mi avete dedicato nemmeno una pagina su Wikipedia.
Sinceramente la cosa non mi stupisce.
Eppure sono tante le onorificenze ricevute.
Croce di cavaliere di Francesco I di 1a classe;
commenda di 1a classe;
commenda del Pontefice Pio IX;
croce con Crochot di Carlo III di Spagna;
croce di cavaliere di 1a classe di S. Valdimiro di Russia; croce di cavaliere di S. Ludovico di Parma;
croce dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Mi chiamo Luigi Corsi e sono arrabbiato.
Ma non per Wikipedia.
E neppure perché qualcuno ha tolto la mia epigrafe dalla statua.
Sono arrabbiato perché la fabbrica che guidavo fin dalla sua nascita (1840), ero il punto di riferimento del comparto metallurgico delle Due Sicilie.