PROVINCIALIZZAZIONE
Tornato dallo stadio, mentre mangio un pacchetto di crackers ascoltando una live su #JuveNapoli, lascio qui qualche riflessione.
La partita è stata giocata al solito modo, e a dirla tutta non ho capito il discorso arbitro (su Radio1 hanno parlato di…
… rosso risparmiato a Gatti, per dire), ma ciò che mi sta lasciando questa stagione da spettatore diretto allo stadio è una sensazione di progressivo avvitamento.
La Juve sembra essersi avviata consapevolmente su un percorso che ne segna stabilmente una dimensione provinciale.
Non è solo una questione di campo ma di postura: mediatica, di approccio alle cose, mercato. Sembra che sia diventato normale concepire la rincorsa come la situazione tipica della Juventus, quando conti, soldi spesi e uomini non rientrano assolutamente in questa casistica.
Se fosse una partita di FM, la Juve sembra la squadra che prendi tesserando vecchie glorie perché parti dalla Serie B e aspiri ad arrivare in alto. Il tutto tralasciando i 700 milioni di euro di capitalizzazione nei 4 anni passati.
La battaglia politica, indiscutibile da farsi vista la gestione pietosa della Federazione sul caos penalizzazione, viene accompagnata da una vox sociale che sembra orientare più lo sguardo a politiche che come Juve abbiamo sempre cercato di scansare.
Noi tifosi per primi eravamo abituati per stile a non polemizzare, guardare la vittoria come obiettivo minimo, il voler esser modello e non passivi attori dell’industria calcio. Godevamo per il dominio sull’avversario e non avevamo bisogno di acquisti milionari a gennaio.
Oggi la tifoseria (allo stadio di voci ne sento tante) è spaccata ma anche disillusa, abituata alla mediocrità. Non solo sul campo per ciò che si vede: nelle attese, nella considerazione dei calciatori, nella passione per trascinare il gruppo squadra, nella cultura dell’alibi.
L’allenatore è uno dei fattori, uno dei più evidenti forse, ma il problema è molto più profondo. Abbiamo radicato l’idea che la Juve sia simbolo di valori come la fatica, il sudore, quando la storia della società parla di una ricerca all’avanguardia, di Internazionalità (…
… pensate da dove arrivarono le maglie rosa) di voglia di vincere e convincere, un qualcosa che simboleggiava bellezza e non rabbia. Questo si traduce a cascata in una serie di comportamenti, di idee, anche di parole che si usano per parlare di Juve assolutamente non idonee.
Io credo sul serio che oggi il problema debba essere affrontato come in azienda si affronterebbe un rebranding. Un guardarsi dentro e riposizionare la vision, le idee, i modi di parlare e raccontarsi, capire quale sia la strada migliore per garantirsi un futuro.
Io non credo che oggi questo sentiero sia stato intrapreso nella maniera più idonea. La cosa che mi fa sperare è la passione che mi guida, anche se continuo a respirare questo odore stantio di provincia. Quando torni, Juve mia?
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Questo periodo è cominciato esattamente il 4 giugno 2017, il giorno dopo la finale di Cardiff, quando il pensiero nella mente di #Allegri è di lasciare.
Non tanto per l'allenatore, che è la punta di un iceberg moooolto grosso.
A mente molto fredda, e ad anni da quel momento, girandoci indietro vediamo infatti una serie di scelte che si collegano a una smania di vincere che lascia da parte tutti i pilastri che hanno permesso di arrivarci, a Cardiff: programmazione, prospettiva, coraggio.
È in quella sede che la società comincia a sfaldarsi dall'interno, non tanto come uomini, ma come visione. Il coraggio di rinnovare si perde in una serie di bias: abbiamo vinto fino a oggi, continueremo a farlo. Lo scollamento è fra il fatto e il come, quasi sia roba elettiva.
Sulla penalizzazione comminata alla Juventus si sta scrivendo tutto e il contrario di tutto, e come tifosi possiamo lamentarci e invocare lotta senza quartiere contro il sistema. Come osservatori però dobbiamo fermarci un attimo e riflettere.
Che la Juventus abbia approfittato dell'ufficio finanziario delle plusvalenze è acclarato. Ci sono intercettazioni chiare, e non possiamo non fare autocritica. La gestione degli ultimi anni è stata ricca di errori al netto dei soliti ululati dei devoti del "vaituismo".
Questa vicenda però dovrebbe aprire una serie di riflessioni a livello strutturale che l'ingessato sistema Italia (dalla federazione al governo) continua a non riuscire a fare mettendo in evidenza come il problema sia proprio di competenze più che di volontà.
Il problema è sempre quello: la vittoria. Se siamo arrivati a questo punto è per un'ossessione portata all'esasperazione che si è ibridata con dei principi a mio avviso sempre più discutibili: l'immediatezza, l'urgenza, l'incapacità di progettare.
C'è un momento dove la Juve sceglie di derogare a ciò che è stata: è l'estate del 2016. La ricordate? Higuain, Pjanic, le clausole, il sogno UCL che si spezza contro una corazzata, un Real Madrid stellare che gli occhi degli ebeti considerano frutto dell'improvvisazione.
A nulla serve far notare a lor signori che per vincere l'UCL 3 anni di fila il Real Madrid schiererà una squadra costruita in sette stagioni, con uomini arrivati pian piano e amalgamati con intelligenza: il tifoso medio bianconero concepisce ormai solo il tutto e subito.
IL RACCONTO DEL CALCIO (CHE RISCHIA DI NON AVER FUTURO)
A me non stupisce che tanti giornalisti difendano un allenatore basandosi dalla sua storia più che su argomenti di campo. È un fenomeno che va allargato a livello analitico a come si raccontano le cose al di là del calcio.
L'aggancio a una tradizione, a ciò che è stato e ai risultati conseguiti è un topos ricorsivo per giustificare il valore: "Una volta si stava meglio". Una tendenza radicata che esprime il perché siamo uno dei Paesi più incapaci di integrare i giovani ed esaltarne i talenti.
Insieme al fenomeno del clientelismo e del machismo italico è parte della nostra cultura. Ed è per questo che è difficile uscire fuori da questi canoni: non a caso lessico, tematiche, insomma modalità di esposizione e racconto del reale si vincolino a luoghi comuni ricorsivi.
Alcuni chiedono l'esonero di Allegri. L'allenatore però è solo la punta di un iceberg, che certo ben rappresenta ma che non incarna da solo: la VISIONE. Il tanto decantato #LiveAhead, che ancora non abbiamo scaricato a terra.
Quando nel 2017 Guardiola viene assunto dal City Group per guidare il Manchester, l'idea non è semplicemente "fare show", ma è costruire un sistema che generi valore in tutte le squadre del gruppo. Viene imposto a tutti i team il gioco di posizione, Pep messo al centro.
L'idea è generare una coscienza collettiva, un network di competenze, dove l'allenatore spagnolo è catalizzatore e snodo. Tutti gli allenatori ricevono i suoi update su allenamenti, idee, tecniche, tutti gli allenatori condividono con lui ciò che fanno in campo.
Dato che sono uno di quelli che per andare a vedere la Juve ha speso migliaia di euro, e leggo tanti "teorici" parlare dello stadio, vi racconto la mia esperienza da abbonato e dico la mia sul perché dello Stadium sempre più vuoto.
1) Andare allo stadio è un impegno anche per chi vive a Torino. Al di là dello spostamento fisico c'è il tempo: uno sceglie di andare allo stadio, magari durante la settimana o alla domenica sera per rilassarsi e godersi una passione sacrificando famiglia, affetti, riposo.
Lo Stadium ha un sistema d'accesso a tripla barriera. Per entrare, nelle serate di punta, fai anche 30' di coda. In settimana devi prendere permesso se lavori e devi andare a casa, posare il pc, cambiarti e mangiare. Questo perché, appunto, poi devi arrivarci, parcheggiare etc.