Cosa avrei fatto da grande?
Non so.
E chi può saperlo a quattro anni.
Io pensavo solo a divertirmi con la mia mamma e i miei fratelli.
Come correre sulla spiaggia.
Ogni estate il mio papà prendeva in affitto una casa a Siculiana, in provincia di Agrigento.
La casa era vicina al mare.
Un mare bellissimo.
Ci andavo sempre con la mia mamma.
La mia mamma si chiama Carmela Milazzo, ha 38 anni e sta sempre con me.
Le mie sorelle sono ormai grandicelle e se la cavano da sole.
Hanno 16 e 13 anni.
Poi c'è il mio fratellino di 9 anni.
Mi chiamo Annalisa Angotti e ho quattro anni.
E…
E la storia di Annalisa raccontata in prima persona finisce qui.
Impossibile entrare nei panni panni di una bambina di quattro anni per raccontare una storia simile. Impossibile trovare le parole.
Troppo dolore.
Anche se la sua storia in qualche modo deve essere raccontata.
Quel 10 agosto 1976 era un giorno come un altro.
La giornata, la famiglia Angotti l'aveva passata al mare e la sera fuori a fare una passeggiata.
E poi tutti a nanna.
Annalisa nel lettone con la mamma.
La casa si trova in Via Marconi.
Mentre la famiglia dorme davanti all’uscio di casa è parcheggiata una Ford 2000 con targa tedesca. Appartiene ad un emigrante siciliano, Francesco Frenda, tornato dalla Germania per una vacanza. Sono le due di notte quando il silenzio viene squarciato da una violenta esplosione
La Ford 2000 imbottita di tritolo è saltata in aria. L’auto a fianco, per lo spostamento d’aria, è volata venti metri di distanza.
La benzina delle due macchine si è sparsa ovunque avvolgendo nelle fiamme i locali della famiglia Angotti.
Il papà si alza, urla, riesce a mettere in salvo Raffaella di 13 anni, Francesca 16 anni, e il fratello Renato di 9 anni.
Annalisa e la sua mamma sono avvolte dalle fiamme. Annalisa non ha nemmeno il pigiamino.
Faceva troppo caldo.
Poco dopo intervengono i soccorritori.
Non c’è un Pronto Soccorso nelle vicinanze. L’ambulanza parte allora per Caltanissetta.
Ma i medici non possono fare niente, non sono attrezzati.
Allora la corsa al centro ustionati dell’ospedale di Palermo.
Annalisa viene portata al centro di rianimazione.
Troppo tardi.
Ha ustioni di primo, secondo e terzo grado e il suo cuoricino smette di battere.
Niente più passeggiate al mare.
Niente più sogni. Niente di niente.
Annalisa era molto legata alla mamma.
E Annalisa era tutto per la sua mamma.
La mamma non saprà mai della morte della sua Annalisa.
Perché morirà anche lei qualche giorno dopo all’Ospedale “San Giovanni di Dio" a Palermo.
Si dice che la mafia non uccide i bambini. Assolutamente falso.
Le mafie hanno sempre ucciso bambini.
E tanti.
#MdT 12/09/1974 - Giuseppe Bruno ha 18 mesi. Viene ucciso mentre è in braccio al padre, da una scarica di pallettoni.
#MdT 29/05/1982 - Lei è Simonetta, 11 anni. Uccisa durante un agguato al padre magistrato (illeso)
#MdT 09/01/1991 - Valentina aveva 6 mesi.
Era in auto con il padre (crivellata di colpi) .
#MdT 2014 - Lui è Cocò, 3 anni, ucciso con un colpo alla testa mentre è sul seggiolino dell'auto (ucciso con il nonno e la compagna)
E ancora...
E poi ancora...
#MdT 23/11/1993 - Giovanni Brusca, latitante, fa rapire Giuseppe Di Matteo (13 anni) figlio del pentito Santino Di Matteo
#MdT 28/07/1998 - Processo per l'uccisione di Giuseppe Di Matteo.
Deposizione di Chiodo Vincenzo.
Il piccolo Giuseppe venne tenuto prigioniero due anni.
Poi strangolato e sciolto nell’acido.
Annalisa stava trascorrendo un’estate meravigliosa. Le piaceva correre sulla spiaggia, giocare con i fratelli facendo il bagno nel bellissimo mare di Siculiana. Come tanti altri bambini rimasta vittima di un attentato di mafia.
L’ennesimo.
Ancora oggi senza colpevoli.
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Thread n. 2/3
Ieri sera vi ho raccontato di come e perché Joe Valachi ha deciso di parlare davanti alla Commissione McClennan.
Per raccontare cosa è “Cosa Nostra”, anche in Tv.
E’ il primo mafioso a denunciare pubblicamente l’Organizzazione.
Tanto, morire per morire.
Joe ha raccontato della sua iniziazione.
Il padrino gli punse il dito facendo uscire del sangue. “Questo sangue significa che ora siamo una sola famiglia”.
Ma cos’è questa famiglia?
Gli americani non vedono l’ora che arrivi una nuova audizione.
Gli americani sono ai suoi piedi, come il Presidente della Commissione.
E lui spiega come un professore agli allievi.
Racconta che Cosa Nostra è composta da tante famiglie.
Negli Stai Uniti sono una dozzina.
Al vertice c’è il Capo di tutti i Capi.
Sotto di lui una dozzina di capi
Thread 1/3
22 giugno 1962.
Da un paio di giorni non mangia, la paura di essere avvelenato è troppa.
Sa che i suoi ex colleghi lo hanno condannato a morte.
Lui, il detenuto n. 82811, sa che la sentenza può essere eseguita anche nel carcere.
Conosce i metodi.
In genere sono tre.
Stricnina nel cibo, e per questo non mangia.
Poi c’è la bastonatura mortale nella doccia, il luogo scelto per queste esecuzioni.
E poi una pugnalata occasionale nel corso di una rissa.
Niente cibo quindi e niente docce per lui.
Ha paura, è nervoso, convinto che tra poco impazzirà
Ha saputo chi sarà il suo boia.
E’ un altro detenuto.
Si chiama Joe Di Palermo, ma tutti lo chiamano Joe Beck.
Il Capo dei Capi, Vito Genovese, anche lui nello stesso carcere, lo ha assoldato per ucciderlo.
E’ in cortile, ha fame, si regge a malapena in piedi.
Quando...
Il 13 agosto 1913 fu un giorno memorabile.
Quando io, Halim Eddine, fui incoronato re d’Albania.
Ismail Qemal Bej aveva chiesto l’indipendenza dell’Albania l’anno prima e gli albanesi avevano chiesto a me, nipote del Sultano, di raggiungere il Paese per essere incoronato re.
E così avevo fatto.
Ero arrivato in città su un cavallo bianco.
E i primi cinque giorni furono per me indimenticabili.
Salito al trono con il nome di Otto I mi avevano persino assegnato un harem con 25 fanciulle.
Tra un piacere e l’altro dichiarai guerra al Montenegro.
Perché ho parlato di soli cinque giorni?
Beh, non so come dirvelo.
Giudicate voi.
Ero nato in Germania il 16 ottobre 1872.
A otto anni ero già un fenomeno.
Nel senso che esordii come domatore di leoni in un circo.
Per diventare poi un acrobata.
Qualcuno ha detto recentemente, riguardo la mafia, che "In Sicilia servono compromessi, tutti lo sanno”.
Si sbaglia.
Perchè se vuoi sconfiggere la mafia non puoi scendere a compromessi.
Se lo fai sei solo complice.
Con la mafia non si tratta.
Mai.
Lo so bene.
Lo sapevamo bene.
Intendo io e mio padre.
Lo dimostra il fatto che nel settembre 2014, a Siracusa, hanno danneggiato la lapide che commemorava proprio mio padre.
L'hanno tolta dal supporto metallico su cui si ergeva e l'hanno distrutta in mille pezzi.
Mi chiamo Giuseppe Francese.
Mio padre Mario era nato a Siracusa il 6 febbraio 1925, terzo di quattro figli.
Finito il ginnasio si era trasferito a Palermo a casa di una zia, la sorella della madre.
Ciò per poter completare il liceo e poi frequentare l'Università.
Prima o poi doveva succedere.
È stato un percorso lungo, ma ho preso la mia decisione.
E mentre aspetto di scendere in campo per l’ultima volta la mia mente corre a quando tutto è iniziato.
A quel “soldo di cacio” che crebbe mangiando gnocchi, lasagne e salsicce.
Mio padre Joe lo chiamavano “Jellybean”, caramella di gelatina, perché lui era sempre sorridente e scherzava di continuo, in campo e fuori.
Voleva trasmettere la sua allegria a chi gli stava intorno.
«Alcune volte clown, altre volte giocatore di basket» scrivevano i giornali.
Mai veramente apprezzato, lasciò gli USA per approdare in Italia.
Precisamente a Rieti, nella Sebastiani.
Abitavamo in via Pierluigi Mariani al numero 33, ed è lì che cominciai a tirare la palla nel bidone della spazzatura all’angolo della villetta.
E poi gli inizi nel minibasket
Un dilettante.
Eppure avete avuto nei confronti della vicenda del gatto Oscar parole di ammirazione.
“Bellissima storia”, “carinissima storia”, “fantastica storia”.
Della mia di vicenda, vi garantisco, è stato detto ben altro.
Non ricordo nessuna ammirazione.
Anzi.
Va bene, prendo atto, ma per quanto mi riguarda vi garantisco di non avere nessuna colpa per quello che è avvenuto durante la mia vita lavorativa.
Mi ritengo solo fortunata, quello sì.
Una fortuna iniziata fin dalla nascita.
Nella pampa argentina, nei pressi di Bahia Blanca.
Dove sono nata il 2 ottobre 1887, prima di nove figli.
Mi chiamo Violet Constance Jessop.
I miei genitori venivano dall’Irlanda.
Ero ancora piccola quando la mia vita venne segnata da due disgrazie: la tubercolosi e la morte di mio padre, un allevatore di pecore.