Questa è una storia che racconto ogni anno.
Falcone e Borsellino non verranno mai dimenticati. Abbiamo dedicato loro piazze, vie e monumenti.
Alle vittime invisibili niente, o molto poco.
Giusto quindi mantenere viva la loro memoria.
Almeno fino a quando Mister X me lo permetterà
Ci sono date che è impossibile dimenticare.
Per esempio il 19 luglio, una settimana fa.
In quel giorno, nel 1992, la morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.
Poi ci sono date spesso dimenticate, come oggi, 26 luglio.
Oggi è il 26 luglio 1992.
Il 19 luglio scorso in via D'Amelio hanno perso la vita in un attentato il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.
I loro nomi: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Una data impossibile da dimenticare.
Un fardello insopportabile che scuote ancora la coscienza di tutti i cittadini per quelle vittime innocenti.
Voi vi ricordate di sei vittime di quella strage.
Non furono solo sei, ma sette.
Come lo so?
Perché la settima vittima sono io.
Mi chiamo Rita e sono nata il 4 settembre 1974 a Partanna in provincia di Trapani.
Con una maledizione addosso, che mi avrebbe perseguitato per tutta la vita.
Un triste destino il mio, fin da piccola.
Tutti i maschi a cui volevo bene sono stati uccisi dalla mafia.
Avevo undici anni quel giorno del 1985 quando persi papà Vito ucciso in un agguato tra mafiosi.
Dopo la sua morte mi legai molto a mio fratello Nicola. Da lui, anch'egli mafioso, raccolsi le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna e dintorni.
Ma nel 1991 anche lui fu ucciso.
La moglie, Piera Aiello, era presente all'omicidio per questo denunciò i due assassini collaborando con la polizia.
Feci lo stesso.
Seguendo le orme di mia cognata cercai nella magistratura giustizia per tutte quelle morti.
E così ci presentammo insieme alla Procura di Marsala.
Grazie alle confidenze di mio fratello Nicola testimoniai contro i mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala.
A raccogliere le mie testimonianze e quelle di mia cognata Piera c’era lui, il procuratore Paolo Borsellino.
Paolo Borsellino diventò come un padre per me.
Uno zio, via.
“Rituzza” mi chiamava.
Grazie a me, a mia cognata Aiello e a Rosalba Triolo. Borsellino aveva potuto attuare due blitz contro le famiglie contrapposte degli Ingoglia e degli Acciardo.
Troppo pericoloso rimanere in paese.
Per questo fui messa sotto tutela del Servizio centrale di protezione, perché "testimone di giustizia".
Vivo ormai isolata, costretta a frequenti cambi di residenza.
Il 19 luglio scorso sono stata trasferita a Roma.
Dove sono ora, in via Amelia al numero 23, al Tuscolano, in uno dei tanti palazzoni alti dieci piani. L’appartamento è piccolo, ma sicuro.
Nessuno sa chi sono e perché sono qui.
La cosa che più mi addolora?
Essere stata rinnegata da mia madre.
Come detto oggi è il 26 luglio 1992.
Appena arrivata a Roma ho saputo cos'è successo allo "zio Paolo".
Sono distrutta.
Sono giorni che giro nervosamente per casa.
“Cosa ne sarà di me? Ormai siamo fritti, ora non c’è più nessuno che ci protegge. Nessuno”.
Il 26 luglio 1992 era una domenica afosa a Roma.
Alle due del pomeriggio Rita chiuse la porta dell’appartamento al settimo piano e spalancò la finestra.
Era in pigiama, a piedi nudi.
Il silenzio della strada deserta fu rotto dal rumore di un tonfo.
Senza un grido.
Rita, non ancora diciottenne, lasciò sul tavolo un biglietto con scritto: “Sono rimasta sconvolta dall’uccisione del procuratore Borsellino. Adesso non c’è più chi mi protegge, sono avvilita, non ce la faccio più”.
Le sue paure avevano vinto.
Ai funerali di Rita, a Partanna, c’erano solo donne a renderle l’ultimo saluto.
A portare in spalla la bara fino al cimitero.
Sui muri nessun manifesto.
Niente lutto. Niente serrande abbassate.
Niente silenzio per le strade come al funerale del vecchio boss del clan dei Cannata
"Allora si fermarono tutti, la bara passava e la gente la copriva di fiori”.
Per Rita niente funzione in chiesa, solo un piccolo rito al cimitero.
A interrompere Don Russo, che parlava solo di peccati, ci pensarono le donne.
”Rita non ha peccato, non lasceremo più una donna sola”
Tante donne, arrivate da Palermo, da Roma, da Bologna.
Tante. Tantissime.
Ma non la madre, che in seguito distruggerà a martellate la lapide della figlia sulla tomba di famiglia, per cancellare la presenza di una "fimmina lingua longa e amica degli sbirri".
Per lungo tempo la memoria di Rita non troverà pace, e per molto tempo la sua tomba non avrà una foto a ricordare la "picciridda".
La storia di Rita è quella di una ragazza che per la prima volta aveva trovato nella vita cose pulite.
E aveva capito la "differenza tra le cose sporche in cui aveva vissuto e quelle pulite che aveva trovato".
Rita Atria.
La settima vittima di via D'Amelio.
Anna Maria Atria, sorella di Rita, non è mai stata convinta del suicidio della sorella.
Per questo ha presentato, insieme alla co-fondatrice dell’Associazione antimafia Rita Atria, Nadia Furnari, un esposto alla Procura di Roma per chiedere la riapertura delle indagini.
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Oggi il Torneo al Queen’s Club è riservato ai soli uomini, ma non era così ai miei tempi.
Era comunque considerato, come oggi, la migliore anticamera prima della partecipazione a Wimbledon, il mio obiettivo.
E la mia spalla non va ad infiammarsi giocando proprio quel torneo?
Una sfortuna sfacciata.
Ero arrivata da poco proprio per fare il grande salto.
Negli USA, la mia patria, avevo vinto molto, per quello avevo deciso di sbarcare in Europa.
E avevo iniziato vincendo i Tornei di Surbiton e Manchester come preparazione a Wimbledon.
Mi presento.
Mi chiamo Maureen Connolly e sono nata il 17 settembre 1934 a San Diego, in California.
Papà voleva un maschio, e per molti anni ho sempre creduto che fosse mia la colpa.
Del suo abbandono, dopo avermi promesso che sarebbe andato a comprarmi un gelato perché avevo la febbre.
Cosa darei per vincere questo torneo?
C’è gente che sarebbe disposta a tutto anche solo per essere presente come spettatore, figuriamoci come protagonista in campo.
Dicono che non posso vincere.
Sono d'accordo.
In conferenza stampa ho detto che darei una mano pur di riuscirci.
C’è sempre dell’ansia prima di entrare in campo.
Ci si veste, poi i soliti riti scaramantici, e infine qualche minuto seduto in attesa della chiamata.
Tra poco sfiderò in finale, sul manto erboso del Centre Court di Wimbledon, il vincitore dell’anno scorso.
Numero uno al mondo.
Non ci sopportiamo.
Vecchia ruggine per questioni di patriottismo.
Non avendo risposto a una chiamata della nazionale per giocare delle amichevoli lo avevo definito “antipatriottico”.
Una causa di risarcimento in corso.
Siamo diversi.
Non solo per il colore della pelle.
Il giudice per le indagini preliminari di Roma ha disposto ieri l’archiviazione dell’indagine relativa alla mia morte, avvenuta mentre operavo per le Nazioni Unite nella missione di pace in Colombia.
Suicidio è stata la conclusione.
Ma non è andata così.
Torniamo a quei giorni.
No, non è stato un rapimento.
Almeno è stato evitato il solito stupido chiacchiericcio sul pagamento di un riscatto da parte del Governo italiano.
E la classica conclusione che in fondo “se l’è cercata”.
No, non è stato un rapimento.
E non me la sono cercata.
Però non è stato nemmeno un suicidio come riportato dalle autorità locali.
Una scena ben confezionata certo, con quelle ferite da taglio e io appeso ad una corda.
Immagino il dolore dei miei familiari e dei miei amici.
Nessuno di loro crederà mai che mi sono tolto la vita.
“Vuoi entrare a far parte della Guardia Costiera? Diventa protagonista: difendi il mare, proteggi la vita e contribuisci a preservare l'ambiente marino”.
Un Corpo nobile, votato a salvare vite e a governare i porti.
Votato a salvare vite.
Quello che fa da sempre.
I principali compiti della Guardia Costiera italiana infatti sono “la salvaguardia della vita umana in mare, la sicurezza della navigazione, la tutela dell'ambiente marino, il monitoraggio del trasporto marittimo, il controllo sulla filiera della pesca marittima”.
Già.
La salvaguardia della vita in mare.
E per anni salvare vite umane era un vanto della Guardia Costiera.
Tanto da renderci partecipi raccontando sui social tutti i loro interventi.
«Si metta vicino alla parete e osservi attentamente la stanza».
La cosa gli era sembrata perlomeno strana.
Le aveva parlato dei suoi problemi, di quel periodo buio dal quale non riusciva a uscire.
Cos’era?
Un nuovo gioco?
Comunque obbedì.
«Ora osservi tutto quello che si trova in questa stanza e si concentri sulle cose di colore nero».
Vabbè, di cose nere ce n’erano parecchie.
La scrivania ne era piena, la libreria, i vasi e poi soprammobili di tutti i tipi.
«Forse sta testando la mia memoria», pensò l’uomo.
Cominciò ad osservare e memorizzare tutte le cose di colore nero e la loro posizione.
Non era poi così difficile.
Aveva sempre avuto una memoria fuori dal comune. Dunque.
Alcuni libri, l'elefantino, un porta vaso, la stilografica...
Era pronto.
L’avrebbe stupita.
Siamo sempre stati abituati ai cataclismi.
Normale se vivi su un’isola dove i terremoti sono all’ordine del giorno da secoli.
Se al centro si eleva il monte Aso, il più vasto vulcano attivo del mondo.
Per non parlare del vulcano Kirishima e a sud quello di Sakurajima.
Eravamo abituati ai cataclismi, noi dell’isola di Kyushu, la Sicilia nipponica.
Sapevamo cosa fosse la paura, vivevamo da sempre con la paura.
Perché proprio a noi?
Perché quella nostra suggestiva città adagiata sulla costa ovest di Kyushu ricca di templi buddisti?
La città dove Pierre Loti aveva vissuto la sua avventura con Madama Crisantemo e in seguito pure quella del tenente Pinkerton con Butterfly.
Una città stupenda.
Sviluppata intorno alla baia dove confluiscono come una sorta di Y azzurra, quei due fiumi, l’Urakami e il Doza.