Qualcuno ha detto recentemente, riguardo la mafia, che "In Sicilia servono compromessi, tutti lo sanno”.
Si sbaglia.
Perchè se vuoi sconfiggere la mafia non puoi scendere a compromessi.
Se lo fai sei solo complice.
Con la mafia non si tratta.
Mai.
Lo so bene. Lo sapevamo bene. Intendo io e mio padre.
Lo dimostra il fatto che nel settembre 2014, a Siracusa, hanno danneggiato la lapide che commemorava proprio mio padre.
L'hanno tolta dal supporto metallico su cui si ergeva e l'hanno distrutta in mille pezzi.
Mi chiamo Giuseppe Francese.
Mio padre Mario era nato a Siracusa il 6 febbraio 1925, terzo di quattro figli.
Finito il ginnasio si era trasferito a Palermo a casa di una zia, la sorella della madre.
Ciò per poter completare il liceo e poi frequentare l'Università.
Conseguita poi la maturità classica, decise di iscriversi alla facoltà di Ingegneria, cominciando a lavorare all'Ansa.
Il suo sogno di giornalista inizia diventando corrispondente de «La Sicilia» di Catania, dove scrive di cronaca nera e giudiziaria.
Il 30 ottobre 1958 papà Mario si sposa con Maria Sagona.
Dall'unione nasceranno quattro figli maschi.
Tra cui io.
Preparare comunicati stampa per i giornali gli sta stretto.
E va a lavorare come cronista giudiziario al Giornale di Sicilia.
Papà diventa una delle firme più importanti del giornale.
Nel 1968 diventa giornalista professionista.
Riesce a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella e pubblica l’intervista sul Giornale di Sicilia il 27 luglio 1971.
“Io mafiosa ? Sono solo una donna innamorata”
Papà era speciale.
Il primo a capire l'evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia corleonese.
Non a caso parlò, unico a quei tempi, della frattura nella «commissione mafiosa» tra liggiani e «guanti di velluto», l'ala moderata.
E Cosa nostra lo condannò a morte.
26 gennaio1979 – Palermo. Ore 21.00.
Mario Francese saluta i colleghi.
Al solito modo: “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”.
Esce dalla redazione del giornale e si avvia in auto verso casa in Viale Campania.
Poca gente.
Diverse macchine sfrecciano veloci.
Mario arriva a casa e scende dall’auto.
Mette una mano in tasca per prendere il pacchetto di sigarette.
Un’alfetta lo affianca.
Nemmeno si accorge del proiettile che lo colpisce alla testa.
Muore sul colpo.
Dall’alfetta parte un'altra raffica di colpi.
Palermo. Ore 21.15 – Uno dei figli di Mario è impaziente.
Il padre doveva essere già a casa.
L’altro figlio, Giuseppe ha solo dodici anni.
Stanno aspettando il padre di rientro dal lavoro. Sentono gli spari.
Giuseppe è sconvolto.
Mario Francese, il loro papà, è morto.
Dopo la morte di Mario Francese non si riuscì consegnare alla giustizia i mandanti e gli esecutori dell’omicidio.
Era stata sicuramente la mafia, ma non si trovavano riscontri.
Sarà il figlio Giuseppe, con la passione del giornalismo, a far riaprire le indagini.
Giuseppe Francese, il figlio più piccolo di Mario, si era rimboccato le maniche e aveva ricostruito l’attività di suo padre attraverso i suoi articoli.
Il suo obbiettivo era di trovare dei collegamenti.
E li trova.
E nella primavera del 1995 consegna tutto alla pm Enza Sabatino.
11 aprile 2001 - Per l’omicidio di suo padre vengono condannati Totò Riina, Leoluca Bagarella (autore materiale), Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco e Bernardo Provenzano.
Giuseppe ha raggiunto il suo scopo.
La verità su suo padre.
Si sente svuotato.
Stanco.
3 settembre 2002 - Giuseppe si è tolto la vita.
Sui suoi appunti una frase di Alessandro Baricco che ama molto, scritta nel libro “Castelli di rabbia”. "Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde".
Il perché lo abbia fatto appartiene solo a lui.
Noi possiamo solo prenderne atto.
Aveva una sensibilità infinita.
Forse troppa per sopportare tutto quello che vedeva intorno a sé.
"Il dolore lo ha corroso, ma ha reso giustizia a nostro padre" dirà il fratello.
“La mafia è il nostro cancro, e noi dobbiamo trovare il modo, il metodo, la formula, il coraggio di combatterlo e sconfiggerlo. Non possiamo abbassare la guardia, ma più forti e consapevoli rispetto al passato, dobbiamo essere consci del fatto che POSSIAMO SCONFIGGERLA!”
Qualcuno ha detto recentemente, riguardo la mafia, che "In Sicilia servono compromessi, tutti lo sanno”.
Si sbaglia.
Perchè se vuoi sconfiggere la mafia non puoi scendere a compromessi.
Se lo fai sei solo complice.
Con la mafia non si tratta.
Mai.
Molti giornalisti furono uccisi.
Molti magistrati pagarono con la loro vita l’impegno contro la mafia.
Anche molte persone comuni.
Ma se pensate a una loro sconfitta vi sbagliate.
Loro hanno vinto.
Almeno fino a quando continueremo a raccontare le loro storie.
Per non dimenticare
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«Si metta vicino alla parete e osservi attentamente la stanza».
La cosa gli era sembrata perlomeno strana.
Le aveva parlato dei suoi problemi, di quel periodo buio dal quale non riusciva a uscire.
Cos’era?
Un nuovo gioco?
Comunque obbedì.
«Ora osservi tutto quello che si trova in questa stanza e si concentri sulle cose di colore nero».
Vabbè, di cose nere ce n’erano parecchie.
La scrivania ne era piena, la libreria, i vasi e poi soprammobili di tutti i tipi.
«Forse sta testando la mia memoria», pensò l’uomo.
Cominciò ad osservare e memorizzare tutte le cose di colore nero e la loro posizione.
Non era poi così difficile.
Aveva sempre avuto una memoria fuori dal comune. Dunque.
Alcuni libri, l'elefantino, un porta vaso, la stilografica...
Era pronto.
L’avrebbe stupita.
Siamo sempre stati abituati ai cataclismi.
Normale se vivi su un’isola dove i terremoti sono all’ordine del giorno da secoli.
Se al centro si eleva il monte Aso, il più vasto vulcano attivo del mondo.
Per non parlare del vulcano Kirishima e a sud quello di Sakurajima.
Eravamo abituati ai cataclismi, noi dell’isola di Kyushu, la Sicilia nipponica.
Sapevamo cosa fosse la paura, vivevamo da sempre con la paura.
Perché proprio a noi?
Perché quella nostra suggestiva città adagiata sulla costa ovest di Kyushu ricca di templi buddisti?
La città dove Pierre Loti aveva vissuto la sua avventura con Madama Crisantemo e in seguito pure quella del tenente Pinkerton con Butterfly.
Una città stupenda.
Sviluppata intorno alla baia dove confluiscono come una sorta di Y azzurra, quei due fiumi, l’Urakami e il Doza.
Nell'ultimo thread di qualche giorno fa, Johannes vi ha raccontato del problema della mancanza di carburante della Regia Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale.
Almeno secondo l’opinione dell’ammiraglio Bragadin.
Fosse stato solo quello il problema.
L’ammiraglio Iachino lo mise nero su bianco, quando parlò di una guerra “più assurda che sfortunata”.
E uno dei motivi di quella guerra assurda riguardava proprio me che, laureato in ingegneria, lavoravo all'Istituto Superiore delle Trasmissioni.
Una guerra assurda, portata avanti da un irresponsabile.
Lui la Marina la voleva luccicante, una splendida Marina da parata e da propaganda.
E al diavolo se le navi da guerra non erano dotate di ecogoniometri per gli “avvistamenti” subacquei e di radar per quelli aeronavali.
Me la ricordo bene quella sera.
Era il 26 aprile 1942 e l’Ammiraglio Varoli Piazza mi convocò nel suo studio.
Lo faceva spesso con me, ufficiale della sezione “Attività del nemico”.
Per discutere sulle ultime notizie dei movimenti delle forze navali britanniche in Mediterraneo
La ricordo bene perché capii subito che qualcosa non andava.
Dall’espressione del viso, e poi da quel gesto di vivo sconforto.
Quando mi mostrò quel foglietto.
Solo in quel momento pronunciò quella frase.
“Guarda qui, siamo a zero”.
L’intestazione del foglio era: “Situazione giornaliera delle rimanenze di nafta”.
Cioè il combustibile per far muovere le nostre navi.
Mi si ghiacciò il sangue nelle vene quando lessi l’ultima cifra: 14.400 tonnellate.
Non era possibile.
Non era possibile.
Da tre anni eravamo al porto di Massaua, nel Mar Rosso, presso il Comando Navale dell'Africa Orientale Italiana in appoggio ai sommergibili.
Nel febbraio del 1941, l’Eritrea, dopo essere stata investita dalle forze britanniche, ormai era condannata.
Eravamo bloccati.
Ma qualche nave avrebbe potuto lasciare il Mar Rosso e salvarsi.
Tra queste la nave coloniale “Eritrea”, la mia nave. Duemilacento tonnellate di dislocamento, velocità massima sui 19 nodi, sei mitragliatrici e due coppie di cannoni da 120/50.
In totale 200 uomini d’equipaggio.
Mi chiamo Marino Iannucci, capitano di vascello e quella che sto per raccontarvi è la storia di un viaggio incredibile.
Una storia che meriterebbe maggior risalto.
Tutto ebbe inizio quando ricevetti l’ordine di abbandonare il Mar Rosso.
E mettere in salvo la nave.
Oggi è il 29 marzo 1941.
Ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia.
Ho affidato poi il messaggio al mare, dentro una bottiglia.
Povera mamma mia.
Mi chiamo Francesco.
E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale.
Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana, classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940.
La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.