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Sto morendo dissanguata. Sento il sangue scorrere accanto a me mentre ripenso a quello che è stata la mia vita nei palazzi dorati.
Mai immaginato di poter finire in questo posto. Ma dopo essere passata per il campo di smistamento a Bolzano mi avevano portata qui, vicino a Weimar
Ricordo l’entrata, e quel cancello con la scritta “Jedem das Seine”, “A ciascuno il suo”.
Non sapevo cosa volesse dire, ma non mi ci volle molto per capirlo. Significava essere arrivati all’inferno: l’inferno del campo di concentramento di Buchenwald.
Era il 18 ottobre del 1943.

Il mio nome è Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana, principessa d’Italia, Etiopia e d’Albania, figlia di Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro. Sposata col principe tedesco Filippo, Langravio d'Assia-Kassel.
Maledetto viaggio.
Se non fossi partita per Sofia, a fine agosto, le cose sarebbero andate diversamente.
Dopo la destituzione di Mussolini, l'affidamento del governo a Badoglio e la firma dell'armistizio con gli alleati, i tedeschi volevano arrestare tutti i regnanti d’Italia.
Per questo i miei erano fuggiti al Sud, lasciando il Paese nel caos.
Io avevo raggiunto a Sofia mia sorella Giovanna, perchè il marito, Re Boris III, era in fin di vita. Ma era morto ed ero ripartita per raggiungere i miei figli custoditi in Vaticano dal Cardinal Montini.
E poi quella dannata telefonata dall’ufficio di Kappler.
“Suo marito” che in quel momento era in Germania, “vuole parlare con lei”, mi disse.
Era una trappola. E così l’arresto e la deportazione. La mia baracca era la numero 15. Una baracca destinata agli “ospiti di riguardo”.
Nessuno doveva sapere il mio vero nome.
Da quel giorno avrei dovuto chiamarmi frau von Weber. E’ vero, la baracca era riservata a prigionieri particolari e il vitto accettabile, ma ero stata arrestata con quel poco che avevo addosso. Ed era arrivato l’inverno.
Il freddo era intenso, ma le mie richieste di vestiti e biancheria erano sempre cadute nel vuoto. I secondini mi chiamavano Madame Abeba. Non so come fu possibile, ma la voce cominciò a girare tra i prigionieri italiani del campo: "la figlia del Re si trova a Buchenwald".
E quando erano venuti a sapere che mangiavo pochissimo e quel poco che mi arrivava in più lo offrivo sempre a chi aveva più bisogno di me, avevano deciso di aiutarmi.
Ero ormai pelle e ossa quando il 24 agosto 1944 sentii gli aerei avvicinarsi al campo.
E' stata una bomba e relativa esplosione a causarmi bruciature ovunque, contusioni e il braccio sinistro maciullato. Mi avevano trasportata nella camera di tolleranza del Campo trasformata provvisoriamente in lazzaretto. Ricoverata, ma senza cure.
Ero peggiorata e quando sopraggiunse la cancrena decisero di amputarmi il braccio. Ma erano già passati 4 giorni e le piaghe erano ormai infette. Non ricordo niente dell’operazione. Se di operazione si può chiamare. So solo che mi hanno riportata nella stanza. E abbandonata.
Mafalda di Savoia morirà dissanguata il 28 agosto del 1944. Aveva 42 anni. Quello che sappiamo lo dobbiamo ad un prigioniero italiano, il sardo Leonardo Bovini, addetto allo scavo di una trincea antiaerea all'interno del recinto della baracca dove Mafalda era tenuta prigioniera.
Era stato lui a notare la Principessa nel campo. La salma della principessa non fu bruciata come accadeva normalmente quando moriva qualcuno nel campo, ma messa in una cassa nera di legno e deposta nel reparto d'onore riservato ai caduti in guerra nella fossa comune 262 delle SS.
Furono 7 marinai di Gaeta, reduci dai lager, a ritrovare la tomba e a collocare sopra, barattando pane, farina e dei marchi, una croce ed una lapide.
La salma della principessa verrà traslata nel 1951 nel cimitero di famiglia, nel castello di Kronberg vicino a Francoforte.
Forse vi state chiedendo perché il re non avvertì la figlia del pericolo imminente.
Non so, forse troppo impegnati a scappare. Comunque Mafalda sapeva quello che stava accadendo in Italia, ma era sposata con un principe tedesco e si fidava proprio di questo.
Quello che gli americani videro nel campo di concentramento di Buchenwald l’11 aprile del 1945 fu qualcosa di sconvolgente.
Come era potuto accadere? E come gli abitanti di Weimar avevano potuto accettare tutto questo?
Cinque giorni dopo, il 16 aprile 1945, un'ordinanza del comandante americano costrinse i mille cittadini di Weimar a visitare il campo. Perché “Tutti devono vedere l’orrore”, disse.
Rimasero sconvolti e molti si sentirono male.
Il giornalista statunitense Edward R. Murrow raccontò cosa vide in quel campo. Lo raccontò alla radio. Concluse il suo intervento con queste parole: ”.... Se vi ho sconvolto, con questa cronaca da Buchenwald, non me ne scuso.”
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